Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Lo psichiatra De Leo indaga la solitudine: nuova emergenza
Friedrich Nietzsche ne soffriva terribilmente. Bertrand Russell diceva che solo con la compagnia della moglie aveva trovato la pace. La solitudine, in ogni epoca, ha tormentato geni, artisti, schiere di persone famose o anonime. Non conosce età, sesso, classe sociale: fa disperare nello stesso modo. Per indagarla attraverso ricerche sociologiche, psicologiche e cliniche, il professor Diego De Leo, psichiatra e psicologo padovano di fama internazionale, ha trasformato i suoi studi in un libro a quattro mani, scritto con Marco Trabucchi, presidente dell’associazione italiana di Psicogeriatria, Maledetta solitudine. Cause ed effetti di un’esperienza difficile da tollerare (Edizioni San Paolo, 220 pagine, 16 euro). Diego De Leo presenta il libro insieme a Marco Trabucchi, domani a Padova a palazzo Moroni, Sala Paladin (ore 18).
Professor De Leo, perchè la scelta di occuparsi della solitudine?
«E’ una scelta che nasce dall’evidenza che la solitudine è diventata un’emergenza internazionale»
La solitudine è soggettiva, influenzata da variabili personali?
«La solitudine di cui insieme a Marco Trabucchi mi occupo nel libro, non è una condizione desiderata. Non è la beata solitudo, sola beatitudo di certi chiostri francescani del Cinquecento, ma è una condizione di sofferenza individuale severa, definita dalla percezione di non avere le relazioni della qualità desiderata, di non essere conosciuti ne’ compresi dagli altri. Si puo’ vivere e lavorare in posti affollati, ma sentirsi soli»
La solitudine porta anche problemi di salute fisica?
«La solitudine può causare un impoverimento della salute fisica e del benessere soggettivo e un accorciamento della vita media, associandosi all’insorgere di demenza, alterando il ritmo sonno-veglia, causando alti livelli di stress e depressione. I suoi effetti sono stati comparati alle conseguenze dell’obesità e al fumare 15 sigarette al giorno per tutta la vita»
Lei sostiene che l’attuale generazione di giovani è la più solitaria di sempre, ma contemporaneamente sembra assolvere i social network…
«I giovani sono i più intensi utilizzatori di smartphone e social media. In numerose ricerche questo è stato associato a un aumento del disagio psichico caratterizzato da disturbi d’ansia e dell’umore, per citare i più comuni. Molti rapporti nazionali e indagini internazionali hanno messo in rilievo il possibile nesso di causalità tra utilizzo intenso di Internet - dai videogiochi ai social media - e aumento dei disturbi mentali. Ma non ha senso ipotizzare un ritorno al passato. Internet ha rappresentato un cambiamento epocale, con avanzamenti straordinari e qualche effetto indesiderato. E se i social media servono a mantenere i contatti o a rivitalizzarli, i risultati sono solo benefici. Almeno questo ci insegna la ricerca”
Le città in cui viviamo sono luoghi di solitudine?
«La vita nelle città si sta modificando molto rapidamente. Spesso i centri storici rimangono abitati dagli anziani, i mezzi pubblici vi accedono con difficoltà, anche solo fare la spesa può diventare un problema. La scomparsa dei negozi di vicinato è ormai un’emergenza comune. I più giovani scelgono residenze in periferie attrezzate con nuovi edifici, parcheggi agevoli, verde pubblico, palestre e centri commerciali. E quando i luoghi della movida cittadina si svuotano, rimane un senso di desolazione. Resta la storia, ma la vita è altrove»
Sono più gli uomini o le donne a soffrire di solitudine?
«Le donne vivono in media 4-5 anni più degli uomini, quindi da un punto di vista demografico sono più esposte alla solitudine. Tuttavia, sono molto più attrezzate biologicamente e culturalmente nel creare network relazionali e nel saper chiedere aiuto. I tradizionali concetti di mascolinità ancora presenti soprattutto nei più anziani, non prevedono dimostrazioni di debolezza o di difficoltà. Gli uomini, poi, non sono per niente inclini a parlare della propria solitudine. Ma indagando attraverso questionari anonimi emerge che sono gli
uomini a sentirsi molto più soli»
Una forma di nuova solitudine è quella dei migranti
«Sicuramente chi migra in un nuovo paese dovrebbe essere consapevole di esporsi a condizioni di solitudine mai vissute in precedenza. Ne ho avuto esperienza personale, visto che ho passato molti anni in Australia: anche se sono andato a dirigere un istituto universitario, ho dovuto confrontarmi anch’io con varie difficoltà. Non conoscevo nessuno, all’inizio, e la mia famiglia era a sedicimila chilometri di distanza. Difficile non sentirsi soli. Lì mi occupavo anche di migranti e delle loro diverse modalità di espressione psicopatologica, incluse le enormi differenze che esistono nei tassi di suicidio delle varie nazioni. E i migranti si portano dietro i tassi di suicidio della nazione d’origine. Per i rifugiati il discorso è completamente diverso. Credo che la disperazione, in loro, non lasci nemmeno spazio alla solitudine»
Le sue esperienze di vita hanno influito nell’interesse verso questo tema?
«Certamente le mie esperienze di vita hanno indirizzato le mie scelte professionali e i miei interessi principali. Mi sono sempre occupato di comportamenti suicidari e di tutte le teorie e i fattori di rischio che ne sono alla base. In chi vuole uccidersi c’è la sensazione di essere disperatamente soli e di non avere la possibilità di essere aiutati da nessuno, di non avere alcuna speranza di un cambiamento positivo in futuro»
Dopo la tragica perdita dei suoi due figli adolescenti, Nicola e Vittorio, in un incidente d’auto, ha dedicato la vita e la professione a sostenere la sofferenza degli altri, attraverso la fondazione De Leo Fund e con tante iniziative. La sua storia personale è esempio e speranza per tante persone che hanno avuto un lutto
«I miei figli sono sempre con me. Occuparmi di alleviare le sofferenze degli altri è l’unico progetto di vita che poteva darmi una mano a sopportare qualcosa di certamente più grande delle risorse personali. Oggi De Leo Fund è di aiuto a molte persone, e questo aiuta anche me. Sono certo che i miei figli sarebbero contenti di sapere che si fanno buone cose con il loro nome. E c’è molto da fare»