Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Cambiato il mondo, è ora di cambiare anche Confindustria
I veneti in prima fila per il rinnovamento
”Il ventennio che si chiude, accanto alla grande crisi i cui effetti sul nostro Paese non sono stati ancora del tutto assorbiti, ha portato due grandi fenomeni che hanno totalmente rimescolato le nostre economie: la globalizzazione e la tecnologia. L’accelerazione della globalizzazione ci ha colti realmente impreparati e ha incoronato come protagonista assoluto un nuovo mega player mondiale, la Cina. Il Far east era considerato dal mondo occidentale come la fabbrica a basso costo dove delocalizzare le produzioni più “labour-intensive”, per rendere le merci più competitive e spesso per evitare le complessità dello sviluppo industriale che, specialmente nella vecchia Europa, ha trovato dei veri e propri oppositori, sovente con preoccupazioni infondate o comunque eccessive, figlie di pregiudizi e di una cultura conservatrice vestita di un finto eco-progressismo.
L’esempio che fa bene immaginare di cosa stiamo parlando riguarda la produzione mondiale di acciaio. Nel 2000 la Cina aveva una fetta del 10% del mercato, dopo soli vent’anni è protagonista assoluta con oltre il 50% di quanto produce l’intero comparto mondiale. La Cina, che ha un assetto politico dirigista dai tratti illiberali, è la protagonista di un neo-capitalismo statalista che ha conquistato in questi vent’anni la leadership su moltissimi settori industriali. Oggi è il mercato più importante per il lusso, i cinesi comprano auto tedesche e vini francesi e vestono italiano (anche se i brand di casa nostra per la maggior parte appartengono sempre ai francesi).
Sono produttori di qualità soprattutto in settori più avanzati come quelli dell’hitech. Un esempio tra tutti il 5G. In pochi hanno capito ancora il potenziale di questa innovazione tecnologica ma a breve se ne parlerà molto, almeno da spettatori del fenomeno. E poi la tecnologia. È stato il ventennio più incredibile dal punto di vista dell’innovazione tecnologica. Nel 2000 per spedire un’immagine per email ci volevano minuti nell’internet primordiale, oggi una frazione di secondo. Mancava la rete di trasmissione, mancava la potenza dei computer. Non c’erano gli smartphone nati nel 2007. Oggi è impensabile un mondo senza questi strumenti. Sono stati fatti salti giganteschi in tutto, nella medicina per esempio. Analizzare il Dna costa pochi euro e a breve questa innovazione sarà una svolta nella prevenzione delle malattie.
In tutti i settori la capacità di calcolo dei computer ha fatto fare un’evoluzione alle produzioni con l’utilizzo di automazioni e robotica che hanno radicalmente cambiato la prospettiva delle lavorazioni manifatturiere. Poi ci sono nuovi mestieri, tanti nuovi mestieri legati al mondo dei dati , l’e-commerce che ha sconvolto il mondo del retail , l’e-booking che ha radicalmente cambiato il turismo e poi ancora la cyber security, i data analyst, gli influencer e molti altri. Risultato, le aziende più capitalizzate e valorizzate al mondo non producono niente di fisico ma gestiscono dati. Da Amazon a Microsoft, Google , Facebook, Alibaba , Uber e altri noti. Anche in questo caso con un’accelerazione spaventosa delle aziende cinesi.
Era un altro mondo. I rilievi statistici non hanno più senso. Ed ecco la sorpresa , il futuro è tutto da scrivere. Non è così scontato che i protagonisti di oggi rimangano gli stessi e con le nuove sensibilità emergenti, prima di tutto quelle ambientali, potrebbero esserci nuovi cambiamenti in atto. Ci vuole una visione. Non si può più improvvisare e bisogna gestire questa enorme transizione considerando la tecnologia come il miglior mezzo per rivoluzionare le nostre fabbriche e conquistare i mercati. Non che gli italiani non lo sappiano già fare, visto gli ottimi risultati delle esportazioni, ma abbiamo perso molto sul nobilitare i nostri prodotti lasciando ad altri la fetta più importante del loro valore.
Un esempio? Il nostro petrolio è il turismo, lo dicono tutti e supposto che sia così è un settore che produce un rispettoso 10% del nostro Pil. Vista la sua importanza mi chiedo perché abbiamo ceduto ai procuratori tecnologici, che gestiscono unicamente le prenotazioni dei clienti on-line, la fetta più importante del fatturato, riconoscendogli dal 15 al 20% di commissioni. Sono quasi esclusivamente stranieri. Si chiama e-booking ed è un fenomeno che non abbiamo saputo governare e così trasferiamo all’estero importanti risorse che avrebbero potuto rimanere in Italia, probabilmente in Paesi che hanno l’unico vantaggio di essere paradisi fiscali. Sono molti i nuovi «disintermediatori digitali», da Amazon a Uber a Airbnb a Alibaba. Si scriveranno libri sul cambiamento del retail e della distribuzione commerciale che per un Paese come l’Italia, che vive la socialità nei centri storici con i suoi negozi di prossimità, diventa un vero fenomeno socio-economico.
In questo quadro cosa deve fare Confindustria, per essere all’altezza dei suoi imprenditori che vanno nel mondo a tenere alto il valore del Made in Italy? E per tenere in partita i tanti associati che invece, a casa nostra, devono lottare quasi esclusivamente contro le ormai insopportabili catene di una classe politica che fatica enormemente a guidare il Paese e preferisce andare dietro ai social e ai sondaggi, che non è in grado non solo di rinnovare le proprie infrastrutture ma nemmeno di assicurarne la manutenzione, che inventa misure demagogiche come il reddito di cittadinanza invece di favorire l’accesso al lavoro aiutando le imprese che assumono, che per il resto è nelle mani della solita burocrazia, autentico fardello per le nostre imprese? Intanto, i governi che si succedono fanno manovre economiche in deficit, sono esperti di clausole di salvaguardia e continuano a rimandare probabili aumenti di tasse come l’Iva promettendo al controllore dei conti europeo che, se sforeremo, abbiamo sempre la risorsa, in un modo o nell’altro, di chiedere agli italiani parte del loro patrimonio per ripianare gli errori di strategie governative inefficaci . Il rinnovo quadriennale della presidenza di Confindustria è l’occasione per dirci le cose come stanno e poi delineare insieme un percorso.
Le cose come stanno: a) la politica preferisce da un lato parlare direttamente ai propri elettori senza passare dai corpi intermedi e dialoga semmai solo con alcune grandi imprese; b) gli imprenditori più rappresentativi sono meno presenti in Confindustria, anche perché la riforma Pesenti li ha confinati nell’Advisory Board, un organismo di consultazione che di fatto non viene frequentato. È evidente che la forza di Confindustria risiedeva nell’aver saputo fare sempre fronte comune (lo dico cone ex presidente della Piccola Industria di Confindustria) tra piccoli, medi e grandi imprenditori nell’interesse del Paese, mentre oggi il rischio è di venire valutati dalla politica soltanto in base al numero e quindi ci vuol poco a risultare meno numerosi di commercianti o artigiani. Allora la nuova presidenza deve ricostituire innanzitutto la rappresentanza unitaria e storica delle imprese al suo interno e guida-re con la forza delle proprie proposte e la qualità del suo Centro Studi anche l’azione unitaria con le altre organizzazioni datoriali. Ma c’è una precondizione: la mancanza reale di dialogo con la politica e i provvedimenti demagogici, anche se travestiti da interventi sociali, del governo, alimentano ancora la cultura antindustriale del Paese. Occorre quindi un grande lavoro di raccordo con l’opinione pubblica piu avvertita e consapevole, occorre anche mostrare i muscoli, mobilitando i nostri imprenditori (che hanno voglia e necessità di impegnarsi e sono stanchi di dover combattere contro i mulini a vento), mettendo a terra la voglia di partecipazione emersa con le Assise di Verona. Quindi una Confindustria di lotta e di governo, che non si accontenti di limitare i danni laddove ci riesce ma rilanci.
Noi veneti dobbiamo essere in prima fila in questo necessario rinnovamento delle ragioni della rappresentanza. Altrimenti, rischiamo un Paese a troppe diverse velocità, incapace di fare sistema: la Lombardia che va per conto suo e noi che rischiamo di fare la ruota di scorta di un abusato modello milanese, che invece è anche nostro nelle sue espressioni migliori rivolte al mondo globale, come il Salone del Mobile o Eicma, la più grande Fiera mondiale delle due ruote. Dobbiamo anche e prima di tutto approfondire le sinergie con il modello emiliano di fare impresa e fare squadra, a noi più vicino e non certo solo geograficamente. Dobbiamo metterci la faccia, valutando chi tra i candidati corrisponde di più al profilo del cambiamento, profondo e vasto, che serve alla nostra casa comune, senza barattare le reali necessità del sistema associativo e delle imprese con le vicepresidenze che alcuni candidati promettono come pressoché unica base di programma.
Altrimenti, rischiamo di parlare alla luna, di rassegnarci a una routine associativa che ha già mostrato tutti i suoi limiti, e noi vogliamo un’associazione forte che ci rappresenti e non una riedizione imprenditoriale del Rotary. Ripartiamo dal lavoro, ripartiamo dalle nostre imprese che sono le nostre comunità e smettiamo di rassegnarci alla crescita zero. Gli italiani hanno voglia di reagire e nessuno si deve permettere di fermarli.