Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
IL PERICOLO DEL (FU) CETO MEDIO
In tempi di impressionante incertezza, chi può dire come sarà il 2020? Il libro di Luca Ricolfi, La società signorile
di massa è un «pugno nello stomaco», copyright Claudio Magris mutuato direttamente da Franz Kafka, per come sconvolge la tradizionale visione della società. Ricordiamone le tesi: in Italia le persone con più di 14 anni che non lavorano superano quelle che lavorano; ciò nonostante, in virtù della ricchezza accumulata dalle generazioni precedenti, i consumi, anche di lusso, hanno dimensioni di massa, non sono d’élite; questi squilibri non possono che determinare una stagnazione economica permanente. Il pugno di Magris era riferito al fatto che il livello di benessere di massa è reso possibile anche dal «paraschiavismo» di una quota ampia del lavoro sommerso, precario, sottopagato. Questo schema è adattabile alla società veneta? In parte sì, ma se ne differenzia perché il non lavoro non la spunta ancora sul lavoro, per poco. Ma ci fornisce uno spunto per cambiare chiave di lettura, dopo questi dieci anni, sulla società veneta.
Un 20% della popolazione si può infatti collocare in una categoria di «patrimonializzati» – che detengono ricchezza accumulata dalle due ultime generazioni, ma che sono anche «dinamici», ovvero investono quote di questa ricchezza, non solo la conservano ma la sviluppano secondo una logica classicamente capitalistica.
Il partito del Pil è questo ma come si vede dai numeri è intrinsecamente minoritario se si volesse porre come elemento egemone del consenso politico. È diventato minoritario per la sorte del ceto medio, un 60/70% della popolazione che potremmo definire così se questa espressione non fosse invecchiata rapidamente in questo decennio di crisi o stagnazione prolungata alla Ricolfi. Il ceto medio è attraversato in realtà da una frattura sempre più ampia tra i «patrimonializzati» e i «dinamici». Questi lavorano, proprio perché hanno difficoltà a fare margini che permettano di patrimonializzare una quota da reinvestire. Sono i giovani dei lavoretti, certo, ma anche molti professionisti, piccoli artigiani, commercianti e operatori dei servizi, molti precari dei servizi pubblici. I «patrimonializzati» invece sono facilitati da una disponibilità ereditata, ma non vogliono, o a volte non possono, svilupparla con investimenti e intraprendenza. In questa frattura cova molto del rancore che caratterizza la narrazione del sociale. Il rancore verso quelli che stanno in alto, verso le élite, è inferiore a quello interno al (ex?) ceto medio. Lavorare molto senza fare margini, oltre all’asfissia del combinato disposto burocrazia fisco, suscita rancore nei confronti dei propri «simili» dell’ex ceto medio, i fortunati che si possono ancora permettere consumi voluttuari. Non agiscono, oggi, meccanismi di mercato che trasferiscono i «patrimoni» in ricchezza per i dinamici non patrimonializzati. Infine ci sono i non patrimonializzati e non dinamici – l’ultimo 10/20% - che sono i pensionati non benestanti, i disoccupati strutturali, gli assistiti dalla spesa pubblica, i nuovi poveri tra indebitamenti e dipendenze. Non siamo alla polarizzazione di Christophe Guilluy, il geografo francese che per primo ha visto la frattura tra la Francia di Parigi e delle altre aree metropolitane e il resto della Francia «periferica», il vastissimo «mondo di sotto» che ha alimentato le rivolte dei gilet gialli. Non ci siamo ancora, ma se si allarga la frattura nel (fu) ceto medio, questa diventa una faglia.