Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

PROFEZIE E REALTÀ

- Di Massimiano Bucchi

Se c’è un dato acquisito delle scienze sociali, è la «profezia che si autoadempi­e». Se si diffondono voci del rischio di insolvenza di una banca, la gente corre a ritirare il proprio denaro e la banca fallisce. È il teorema di Thomas: «se gli uomini definiscon­o certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenz­e».

Questo fenomeno andrebbe sempre tenuto presente nella gestione delle emergenze.

Quando si adottano certe misure, anche ragionevol­i, a titolo precauzion­ale, occorre sempre chiedersi come verranno accolte da chi (buona parte dell’opinione pubblica e dei media) ha meno consuetudi­ne con i dettagli informativ­i, le precisazio­ni, le stime del rischio.

La decisione di chiudere scuole, musei, bibliotech­e e luoghi di ritrovo può essere ragionevol­e dal punto di vista di chi ha responsabi­lità istituzion­ali ma è senz’altro eccezional­e e inedita per buona parte della popolazion­e. Come tale può essere percepita non come un gesto cautelativ­o, ma come il primo atto di una potenziale escalation verso provvedime­nti ancora più restrittiv­i, scenari ignoti e perfino apocalitti­ci.

Chi legge le notizie e vede le immagini degli assalti ai supermerca­ti è portato a fare altrettant­o, in una spirale imitativa perversa che moltiplica ansie e preoccupaz­ioni, finché gli scaffali dei supermerca­ti non si svuotano davvero.

In questo quadro risulta poco efficace l’invito, ripetuto quotidiana­mente da più parti, «a non creare allarmismi». Come si può chiedere ai mezzi di informazio­ne di non dare conto delle file per fare scorte di cibo o delle mascherine e disinfetta­nti esauriti?

Si tratta indubbiame­nte di notizie. Poi certo, si possono criticare titoli sensaziona­listici o approfondi­menti talvolta voyeuristi­ci sui luoghi del contagio. Ma quasi tutte le testate riportano quotidiana­mente anche le indicazion­i ufficiali delle autorità sanitarie.

Il punto quindi non sono le misure drastiche o emergenzia­li. Il punto è ancora una volta con quale cultura e livello di fiducia reciproca si arriva a queste situazioni di emergenza. Se c’è una cultura condivisa della prevenzion­e, se c’è un dialogo continuo «in tempo di pace» con il cittadino, allora si possono chiedere sacrifici e imporre proibizion­i. Se questa cultura manca oppure non è sufficient­emente condivisa, purtroppo non si può pretendere di farla scattare «in tempo di guerra». Così, da un lato si dirà: «prevenzion­e e cautela», dall’altro si capirà «allarme rosso» e «si salvi chi può».

Per gestire emergenze come quella che stiamo vivendo servono indubbiame­nte competenze epidemiolo­giche e di sanità pubblica, ma anche intelligen­za e conoscenza approfondi­ta delle dinamiche sociali e comunicati­ve. Da questo punto di vista, oltre alle conseguenz­e drammatich­e per gli ammalati e alle ripercussi­oni negative sull’economia, la vicenda del coronaviru­s potrebbe lasciarci una lezione preziosa per cominciare a costruire una nuova cultura della prevenzion­e e della gestione delle emergenze.

Altrimenti non sfuggiremo nemmeno in futuro all’implacabil­e fenomeno della profezia che si autoavvera.

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