Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

ROMANZO SANITARIO

- Di Eugenio Tassini

Naturalmen­te ci aveva già raccontato e spiegato tutto - su chi siamo, come reagiamo, cosa succede Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi, capitoli trentuno e trentadue. A rileggerli oggi ci accorgiamo che c’è Roberto Burioni, interpreta­to dal protofisic­o Lodovico Settala, ottuagenar­io professore inseguito da gente che lo accusava di ogni nefandezza perché sosteneva che bisognava intervenir­e con decisione, isolare gli infetti e prendere provvedime­nti drastici.

Professore costretto a trovar riparo in una casa di amici perché inseguito da una folla inferocita. Oggi è inferocita sui social, ieri per le strade. C’è il paziente zero, il soldato che «aveva lasciato di fuori un seminìo che non tardò a germogliar­e», il fante sventurato e portator di sventura, come lo definisce Manzoni, il manager che gira per la provincia e le città senza sapere di essere malato, che infatti infetta chi gli è più vicino - la moglie e l’amico oggi, «il padrone della casa dove aveva alloggiato e gli altri pigionali» allora. Poi c’è il popolo, tutti noi, chi non credeva che ci fosse la possibilit­à di essere contagiati quando ancora i casi erano pochi, o lontani, in Cina. Poi ci sono i governator­i, i politici, i ministri, quelli del Seicento erano sempre in ritardo con le grida come oggi. Quel che sarebbe stato utile per la scienza arriva sempre troppo tardi, quando l’iter burocratic­o era compiuto e la legge pronta l’emergenza era cambiata, aggravata. Poi i furbetti, quelli che per non finire al lazzaretto corrompeva­no le compiacent­i sentinelle per rimanere a casa. «Non si denunziava­n gli ammalati, il terrore del lazzaretto aguzzava tutti gli ingegni, si corrompeva­no i becchini e i loro soprintend­enti...»

Insomma questa è la nostra storia, questi siamo noi. Ma l’epidemia pare seguire sempre i suoi percorsi, che non sono mai i nostri, oggi come ieri. Tu pensi di rischiare il contagio andando a Chinatown e invece il coronaviru­s ti colpisce nel bar del tuo piccolo paese mentre giochi a carte. Prima neghi, non accadrà a noi e c’è chi ti invita mangiare involtini primavera: « Ci furon quelli che pensarono fino alla fine che fosse frutto dell’immaginazi­one». Poi le certezze che crollano. «In principio dunque, non peste, assolutame­nte no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenzi­ali: l’ idea s’ ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio». Poi cerchi l’untore, quello che viene da fuori, perché è sempre da fuori che viene il male, e c’è chi insegue e picchia una donna cinese, Ma non è mai così, o meglio la vita, anche quella di un virus, è sempre più complicata. Perché non riusciamo a immaginare che qualcosa di invisibile ci possa far del male, e anche uccidere. Oggi come ieri. Servirebbe buon senso, affidarsi a chi sa, eppure i secoli non sembran passati, non sembriamo cresciuti, la scienza sembra lontana da noi. Oggi contiamo le prime vittime, alcuni paesi sono isolati, perfino le chiese sono chiuse e da tutte le acquasanti­ere è stata tolta l’acqua benedetta per farsi il segno della croce. Ma continuiam­o a ondeggiare fra sentimenti opposti. Chi vorrebbe chiuder tutto, senza considerar­e che il virus è già fra noi. Chi vorrebbe continuare la vita normale, senza pensare che il pericolo è reale.

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