Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
INEVITABILE PRIORITÀ
Coronavirus: c’è un tempo per la salute e un tempo per il benessere. Contro l’epidemia da coronavirus siamo il Paese che sta facendo da cavia per tutte le democrazie occidentali. Possiamo tener conto delle esperienze della Cina, che non è una democrazia, e della Corea del Sud, che non è occidentale. Ma dobbiamo imparare da soli facendo e, purtroppo, pagandone il prezzo. Dobbiamo apprendere dai successi, come l’abbattimento del tasso di riproduzione del virus a Vo’ Euganeo, e dagli errori, come la chiusura affrettata dei voli diretti con la Cina o la fuga di notizie sulla chiusura della Lombardia lo scorso fine settimana. L’Europa, gli Stati Uniti e le altre democrazie occidentali che fino a ieri ci guardavano con la speranza di farla franca, oggi ci osservano interessati con il timore, che diventa ogni giorno di più certezza, di essere i prossimi a dover affrontare lo scoppio virulento del Covit-19. Del nostro primato - anche fosse solo temporale avremmo volentieri voluto, e forse potuto, fare a meno, Ma oggi siamo in ballo e dobbiamo ballare, trovando il difficile equilibrio tra adesione volontaria ( ma si può immaginare che gli italiani sappiano accettare la disciplina necessaria e i connessi sacrifici?
Si chiede il New York Times) e prescrizioni obbligatorie. Un equilibrio che nel momento nel quale si è passati - con i decreti governativi e le ordinanze regionali che hanno istituito la zona arancione prima in 22 province e poi in tutta Italia - dalla fase di contenimento ( affidata alla speranza che il virus non si diffondesse dalle zone rosse di Codogno e Vo’) a quella di mitigazione (mettere il sistema sanitario in condizioni di reggere al picco, da diluire in ogni modo, del contagio) non può non spostarsi dalla adesione alla prescrizione. Uno spostamento che paradossalmente ha bisogno di largo consenso democratico. Da costruire a partire dall’accettazione del fatto crudele che nella lotta a una epidemia causata da un virus ignoto non si possono affrontare contemporaneamente le conseguenze sanitarie e quelle economico sociali. Esiste un tempo per la difesa della salute e un tempo per la difesa del benessere. Stiamo imparando a caro prezzo che se la sola arma di cui disponiamo per combattere l’emergenza sanitaria sono il distanziamento sociale e il confinamento obbligatorio dobbiamo fare «tutto quello che serve» (parafrasando il famoso «whatever it takes» di Draghi di fronte alla crisi del debito sovrano) «senza se e senza ma», pur sapendo che questo non può non rendere più gravi le conseguenze economiche e sociali del nostro lavorare da casa, studiare da casa, comprare da casa, pregare da casa, evitare ristoranti, musei, cinema, teatri, stadi e ogni altro luogo di aggregazione. La chiave di volta è la durata dell’emergenza sanitaria. Ma nessuno sa prevedere oggi quando potremo dichiarare sconfitto il virus e occuparci ancora di «tutto quello che serve», «senza se e senza ma», questa volta della emergenza economica e sociale. Da quando? Dal 3 aprile dei decreti governativi? Fra seiotto settimane come in Cina, ma contate da quando? O - ipotesi catastrofica - fino a che non ci verrà in soccorso il generale estate? Di sicuro questa data chiave sarà tanto più vicina quanto più efficace sarà la lotta ai virus condotta con il distanziamento sociale. La politica economica in questa fase di emergenza sanitaria non può essere che quella dell’arricchimento tempestivo della capacità di risposta medica e ospedaliera e quella del sostegno finanziario transitorio ai lavoratori e alle imprese colpite dagli effetti del virus - modifiche dei comportamenti dei loro clienti o fornitori - o da quelli delle limitazioni imposte per rendere efficace il distanziamento sociale. I 7,5 miliardi di euro finora stanziati dallo stato dovrebbero essere sufficienti se l’emergenza sanitaria si esaurirà entro poche settimane. La fase due, il tempo del contrasto all’emergenza economica e sociale, è tutta un’altra storia. Per quantità di risorse da mettere in campo (dai 30 miliardi di euro stimati da Cottarelli in su), per istituzioni da coinvolgere (l’Ue con gli eurobond suggeriti da Prodi e QuadrioCurzio), per politiche industriali da attivare (consolidamento del digitale attivato da lavoro agile, dall’insegnamento a distanza, etc.) e, ancor prima, per capacità di intuire quali caratteri nuovi assumeranno la globalizzazione dei mercati e l’organizzazione della società tutta tesa fino ad oggi a massimizzare l’interazione, concentrando ed aggregando imprese e individui in contesti urbani. Una fase che avrebbe un bisogno estremo di essere condotta da attori, politici e non, all’altezza di questi cambiamenti epocali. Speriamo di trovarli.