Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
«Educhiamoci tutti alla paura»
Sosteneva Jack London nell’immortale Zanna Bianca che la paura è quell’eredità della vita selvaggia a cui nessun animale – e perciò nessun essere umano – può sfuggire. Ce ne dà autorevole conferma Daniela Lucangeli, docente di Psicologia dell’educazione all’università di Padova: «Le emozioni sono un vero e proprio linguaggio che ciascun organismo utilizza per comunicare. L’emozione più antica e potente che tutti sperimentiamo è la paura, che ha una funzione essenziale poiché dovrebbe determinare in ciascuno di noi una reazione capace di generare l’antidoto, una risposta di protezione. Se non ne siamo capaci, la paura diventa stabile nei nostri circuiti mentali».
Perciò, nessuno si meravigli se, in questi giorni di (parziale) riconquista dell’autonomia di movimento e azione dopo infiniti giorni di isolamento coatto, il mondo degli umani si divide in due: quelli che smaniano per abbattere al più presto ogni limitazione, in perenne ansia di libertà, e quelli che, al contrario, vivono con malcelato timore il ritorno al mondo esterno, perché lì fuori c’è ancora Lui, il Virus che toglie il respiro, sempre in agguato dietro la parvenza di normalità.
Professoressa Lucangeli, perché abbiamo ancora paura?
«Perché, oltre a quanto è già stato detto, il fattore di rischio obiettivamente rimane, è sia mentale che reale e noi non siamo ancora in grado di eliminarlo. Il nemico è nel respiro dell’altro, quello che mi può contaminare semplicemente perché l’ho incontrato sulla mia strada».
A questi meccanismi innati come si risponde?
«Imparando ad autoregolarli. Ai bambini, per esempio, si può insegnare come riconoscere le emozioni ed elaborare un antagonista: se hai paura, esiste come antidoto il coraggio e questo coraggio bisogna esercitarlo».
Vogliamo fare un esempio?
«Al bambino si può spiegare che, se gli fa paura uscire di casa, può provare ad andare fino all’edificio dall’altra parte della strada e poi tornare ad abbracciare la mamma. Questo gli infonderà sicurezza e, la volta successiva, anziché fino alla casa più vicina arriverà magari in fondo alla via. Con i bambini può funzionare, perché la loro mente è ancora sufficientemente libera dall’accumulo di esperienze e ricordi».
Con gli adulti, invece, l’operazione si fa più complicata.
«Con gli adulti bisogna stimolare la consapevolezza che tutti abbiamo bisogno di elaborare e regolare le nostre emozioni, dobbiamo avere la pazienza di imparare a farlo. L’auto-regolazione, in altre parole, dovrebbe diventare una cura educativa, anzi educante e permanente, attraverso un processo personale di presa di coscienza e percorsi ed esperienze anche formative. È necessario un percorso di tipo educativo anche per gli adulti, che si basi innanzitutto sulla riflessione e che possa servire a ciascuno a saper ascoltare e gestire il proprio dialogo emotivo, abbassando per così dire i toni degli alert che tormentano l’equilibrio di base ».
È possibile dare qualche consiglio pratico?
«Per capire come si fa, ognuno si deve istruire imparando. Per esempio, può essere utile consultare in rete le riflessioni al riguardo che mettiamo a disposizione di tutti. Ma rimane un fatto
non si può comandare alle nostre emozioni come funzionare, “spegniti paura... aumentati gioia”... Questo può essere soltanto il frutto di un percorso, continuo e consapevole, di autoeducazione, apprendimento ed esperienza».
Quindi è comprensibile la reazione di quanti , in questi giorni, temono di tornare nel modo esterno, quasi che nella clausura imposta dalle esigenze sanitarie abbiano trovato una loro zona di comfort?
«Guardi, in questi due mesi è accaduto tutto e il contrario di tutto. Ciascuno di noi reagisce inevitabilmente attraverso comportamenti diversi, che nel tempo possono differire anche nella stessa persona» .
E come definirebbe invece il comportamento opposto, cioè l’insopprimibile ansia di libertà che anima molti tra i «reclusi dalla pandemia»?
«Noi siamo animali sociali e difficilmente sopportiamo il confinamento. Il bisogno di essere liberi è profondo e quanto di più normale, direi umano per eccellenza. Molti dei colleghi impegnati in prima linea mi hanno segnalato che l’insofferenza al confinamento si è riscontrata soprattutto tra quanti non hanno vissuto un’esperienza, personale oppure attraverso i parenti stretti, con il Covid-19. Sembra cioè che, tra le persone che non hanno affrontato il virus, si sia manifestata più forte una certa ribellione alle limitazioni. Chi ne ha avuto conoscenza diretta, invece, ha maturato un atteggiamento profondamente diverso».