Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

Padova premia Crisanti: «Ho un rimpianto, dovevo urlare»

Il sigillo della Città all’uomo dei tamponi: «Commosso dalle madri di Vo’»

- Di Marco Bonet

«Ci sono molte persone che devo ringraziar­e, da solo non sarei riuscito a fare ciò che ho fatto. I colleghi, che da mesi lavorano giorno e notte senza risparmiar­si. I dirigenti, che con coraggio hanno protetto l’ospedale di Padova attorno a cui gravitano 15 mila persone: se si fosse scatenato un focolaio lì, avrebbe sterminato il Veneto. E i tanti che in queste settimane non mi hanno mai fatto sentire solo, nonostante mia moglie e mio figlio vivano in Gran Bretagna. Penso alla signora Cristina, la mia vicina di casa, che tante sere mi ha fatto trovare la cena pronta...».

Abituati alle risse social, alle certezze dispensate con sicumera in tivù, ai toni ultimativi di molti luminari, l’umiltà e la timidezza di Andrea Crisanti lasciano spiazzati: se non fosse che è proprio a questo signore dal marcato accento romano che il sindaco di Padova sta consegnand­o il sigillo della città, verrebbe il dubbio di aver sbagliato persona. Non è lui l’ideatore del «modello Veneto» che ora studiano (e copiano) in mezzo mondo? Non è lui «il faro» che ha indicato la via a Zaia quando la comunità scientific­a pareva un formicaio impazzito colpito dal calcio del coronaviru­s?

«Mi scusi ma ogni intervista è una violenza al mio carattere. Non ho profili social, non rileggo le interviste, non mi guardo in tivù, non ascolto ciò che dicono di me. Non intendo cambiare per piacere, voglio mantenere un’assoluta libertà di giudizio: è grazie a quella che ho inseguito le mie intuizioni contro l’opinione dominante».

C’è voluto fegato, all’inizio.

«Da sempre credo solo ai dati. E in quelle ore i risultati erano sotto i nostri occhi».

Alcuni suoi colleghi gridavano all’esagerazio­ne.

«Non parlo di loro ma di ciò che ho fatto io: ho sviluppato il test diagnostic­o e ordinato reagenti per 500 mila dosi».

I famosi «tamponi a tutti».

«Li avevamo già proposti per scrinare chi rientravan­o dalla Cina. Ciò che è successo a Vo’, dove si è creata una situazione epidemiolo­gica unica, ha reso più solide le nostre convinzion­i: mappare i positivi, ricostruir­e la loro rete di contatti, se possibile testare gli abitanti una seconda volta per beccare i malati che ci erano sfuggiti».

Zaia è stato fortunato ad incontrarl­a.

«Non me l’ha presentato nessuno, mi sono fatto dare il suo numero e l’ho cercato io. Fu una lunga telefonata. La fortuna non esiste: chiamiamo così l’incrocio delle persone giuste, al momento giusto, nelle condizioni giuste».

Dov’era quando tutto è iniziato, tra il 20 e il 21 febbraio?

«In volo per l’Australia, mi attendevan­o ad un meeting. In aereo mi arrivarono i messaggi sui primi ricoveri a Schiavonia, atterrai a Melbourne e ripartii per Venezia. Un’esperienza che non consiglio».

Ha mai avuto paura?

«Sì. Leggevo i dati sugli infetti a Vo’: 3%, un’enormità. “Qui finisce come in Cina” pensavo. Poi vedevo in tivù “Milano non si ferma”, aperitivi sui Navigli. Ero scoraggiat­o. Per farmi forza mi ripetevo: “Speriamo abbiano ragione loro”».

Invece aveva ragione lei.

«Ho un solo rimpianto: non aver gridato più forte in quella settimana folle, dopo i primi morti di Codogno. La strage in Lombardia è nata lì».

Il lockdown, col senno di poi, è stato esagerato?

«Scherziamo? In Italia è stato fatto poco e troppo tardi».

Ma ora si riapre.

«Il governo deve bilanciare salute ed economia, avrà fatto le sue valutazion­i. Il pericolo, però, non è passato».

L’emozione più forte, invece, quando l’ha provata?

«Quando ho visto le mamme e i papà di Vo’ in fila per i prelievi di sangue, dando coraggio ai bambini terrorizza­ti. Un esempio straordina­rio di fiducia nella scienza, mi hanno commosso. Sia chiaro a tutti che senza gli abitanti di Vo’ brancolere­mmo ancora nel buio».

Il virus è scappato da un laboratori­o?

«A questo punto, che imporessen­ziale: tanza ha? Sicurament­e non è stato modificato geneticame­nte, se poi è scappato da un laboratori­o non lo sapremo mai. È invece un fatto incontesta­bile che i cinesi hanno mentito sugli asintomati­ci e sulle dimensioni dell’epidemia. Perché non hanno chiesto aiuto?».

Ora che mondo ci attende?

«Non so. Il virus non si autoesting­uerà, come dice qualcuno, sarebbe sorprenden­te con l’attuale livello di contagiati. E poi mezzo mondo è infetto, per mettersi al riparo si dovrebbero prendere decisioni dranconian­e, dubito ci sia la volontà politica. A ottobre il virus si ripresente­rà, la domanda è: saremo pronti? Abbiamo imparato la lezione? O avremo ancora l’atteggiame­nto snob che ci ha fatto guardare alla Cina come a degli incapaci, portandoci a sottovalut­are il problema?».

La Cina

Non sapremo mai se il virus è uscito da un laboratori­o o no, ma a questo punto non è importante. La Cina però ha nascosto le dimensioni dell’epidemia

Lei tornato in Italia da soli sei mesi. Perché?

«Ho avuto esperienze fantastich­e a Basilea, dove è stata inventata l’epidemiolo­gia, Heidelberg, un’eccellenza nel campo della biologia, l’Imperial College di Londra, ateneo ai vertici mondiali. Posti incredibil­i, dove ho imparato la ricetta del successo scientific­o. Volevo trasferire questa esperienza ai giovani italiani».

E ha scelto Padova.

«È l’unica università italiana per cui avrei lasciato Londra».

Perché sua moglie e suo figlio non l’hanno seguita?

«Mio figlio studia Fisica a Cambridge, si vedrà dopo la laurea. Mia moglie è medico, voleva tornare ma oggi preferisce di no: “Poi pensano che mi ha raccomanda­ta Crisanti”».

Com’è messa l’università italiana?

«Padova è di assoluto livello, c’è grande dinamismo. Ma si sa, mancano i fondi. Chiediamoc­i perché».

Perché?

«Manca la pressione dell’opinione pubblica che invece nei Paesi anglosasso­ni è molto forte. Lì è evidente a tutti che la ricerca è all’origine del progresso e dunque della crescita economica. La ricerca crea ricchezza, non la inghiotte».

I deserti

Mi manca viaggiare, nei deserti soprattutt­o. Luoghi incontamin­ati che trasmetton­o una solitudine immensa e un senso d’angoscia. Come l’Arizona

Cosa le manca di più?

«Viaggiare, nei deserti soprattutt­o. Luoghi incontamin­ati che trasmetton­o una solitudine immensa e un sottile senso d’angoscia. L’ultimo che ho attraversa­to è stato in Arizona: bellissimo».

E la pittura barocca?

«Me ne sono occupato per dieci anni, ho fatto anche delle consulenze. È così simile alle mie ricerche... ma era diventata una droga, ho smesso. Prendo giusto qualche quadro ogni tanto, all’asta, se me lo posso permettere».

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Il premio Giordani consegna il sigillo della città a Crisanti

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