Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Padova premia Crisanti: «Ho un rimpianto, dovevo urlare»
Il sigillo della Città all’uomo dei tamponi: «Commosso dalle madri di Vo’»
«Ci sono molte persone che devo ringraziare, da solo non sarei riuscito a fare ciò che ho fatto. I colleghi, che da mesi lavorano giorno e notte senza risparmiarsi. I dirigenti, che con coraggio hanno protetto l’ospedale di Padova attorno a cui gravitano 15 mila persone: se si fosse scatenato un focolaio lì, avrebbe sterminato il Veneto. E i tanti che in queste settimane non mi hanno mai fatto sentire solo, nonostante mia moglie e mio figlio vivano in Gran Bretagna. Penso alla signora Cristina, la mia vicina di casa, che tante sere mi ha fatto trovare la cena pronta...».
Abituati alle risse social, alle certezze dispensate con sicumera in tivù, ai toni ultimativi di molti luminari, l’umiltà e la timidezza di Andrea Crisanti lasciano spiazzati: se non fosse che è proprio a questo signore dal marcato accento romano che il sindaco di Padova sta consegnando il sigillo della città, verrebbe il dubbio di aver sbagliato persona. Non è lui l’ideatore del «modello Veneto» che ora studiano (e copiano) in mezzo mondo? Non è lui «il faro» che ha indicato la via a Zaia quando la comunità scientifica pareva un formicaio impazzito colpito dal calcio del coronavirus?
«Mi scusi ma ogni intervista è una violenza al mio carattere. Non ho profili social, non rileggo le interviste, non mi guardo in tivù, non ascolto ciò che dicono di me. Non intendo cambiare per piacere, voglio mantenere un’assoluta libertà di giudizio: è grazie a quella che ho inseguito le mie intuizioni contro l’opinione dominante».
C’è voluto fegato, all’inizio.
«Da sempre credo solo ai dati. E in quelle ore i risultati erano sotto i nostri occhi».
Alcuni suoi colleghi gridavano all’esagerazione.
«Non parlo di loro ma di ciò che ho fatto io: ho sviluppato il test diagnostico e ordinato reagenti per 500 mila dosi».
I famosi «tamponi a tutti».
«Li avevamo già proposti per scrinare chi rientravano dalla Cina. Ciò che è successo a Vo’, dove si è creata una situazione epidemiologica unica, ha reso più solide le nostre convinzioni: mappare i positivi, ricostruire la loro rete di contatti, se possibile testare gli abitanti una seconda volta per beccare i malati che ci erano sfuggiti».
Zaia è stato fortunato ad incontrarla.
«Non me l’ha presentato nessuno, mi sono fatto dare il suo numero e l’ho cercato io. Fu una lunga telefonata. La fortuna non esiste: chiamiamo così l’incrocio delle persone giuste, al momento giusto, nelle condizioni giuste».
Dov’era quando tutto è iniziato, tra il 20 e il 21 febbraio?
«In volo per l’Australia, mi attendevano ad un meeting. In aereo mi arrivarono i messaggi sui primi ricoveri a Schiavonia, atterrai a Melbourne e ripartii per Venezia. Un’esperienza che non consiglio».
Ha mai avuto paura?
«Sì. Leggevo i dati sugli infetti a Vo’: 3%, un’enormità. “Qui finisce come in Cina” pensavo. Poi vedevo in tivù “Milano non si ferma”, aperitivi sui Navigli. Ero scoraggiato. Per farmi forza mi ripetevo: “Speriamo abbiano ragione loro”».
Invece aveva ragione lei.
«Ho un solo rimpianto: non aver gridato più forte in quella settimana folle, dopo i primi morti di Codogno. La strage in Lombardia è nata lì».
Il lockdown, col senno di poi, è stato esagerato?
«Scherziamo? In Italia è stato fatto poco e troppo tardi».
Ma ora si riapre.
«Il governo deve bilanciare salute ed economia, avrà fatto le sue valutazioni. Il pericolo, però, non è passato».
L’emozione più forte, invece, quando l’ha provata?
«Quando ho visto le mamme e i papà di Vo’ in fila per i prelievi di sangue, dando coraggio ai bambini terrorizzati. Un esempio straordinario di fiducia nella scienza, mi hanno commosso. Sia chiaro a tutti che senza gli abitanti di Vo’ brancoleremmo ancora nel buio».
Il virus è scappato da un laboratorio?
«A questo punto, che imporessenziale: tanza ha? Sicuramente non è stato modificato geneticamente, se poi è scappato da un laboratorio non lo sapremo mai. È invece un fatto incontestabile che i cinesi hanno mentito sugli asintomatici e sulle dimensioni dell’epidemia. Perché non hanno chiesto aiuto?».
Ora che mondo ci attende?
«Non so. Il virus non si autoestinguerà, come dice qualcuno, sarebbe sorprendente con l’attuale livello di contagiati. E poi mezzo mondo è infetto, per mettersi al riparo si dovrebbero prendere decisioni dranconiane, dubito ci sia la volontà politica. A ottobre il virus si ripresenterà, la domanda è: saremo pronti? Abbiamo imparato la lezione? O avremo ancora l’atteggiamento snob che ci ha fatto guardare alla Cina come a degli incapaci, portandoci a sottovalutare il problema?».
La Cina
Non sapremo mai se il virus è uscito da un laboratorio o no, ma a questo punto non è importante. La Cina però ha nascosto le dimensioni dell’epidemia
Lei tornato in Italia da soli sei mesi. Perché?
«Ho avuto esperienze fantastiche a Basilea, dove è stata inventata l’epidemiologia, Heidelberg, un’eccellenza nel campo della biologia, l’Imperial College di Londra, ateneo ai vertici mondiali. Posti incredibili, dove ho imparato la ricetta del successo scientifico. Volevo trasferire questa esperienza ai giovani italiani».
E ha scelto Padova.
«È l’unica università italiana per cui avrei lasciato Londra».
Perché sua moglie e suo figlio non l’hanno seguita?
«Mio figlio studia Fisica a Cambridge, si vedrà dopo la laurea. Mia moglie è medico, voleva tornare ma oggi preferisce di no: “Poi pensano che mi ha raccomandata Crisanti”».
Com’è messa l’università italiana?
«Padova è di assoluto livello, c’è grande dinamismo. Ma si sa, mancano i fondi. Chiediamoci perché».
Perché?
«Manca la pressione dell’opinione pubblica che invece nei Paesi anglosassoni è molto forte. Lì è evidente a tutti che la ricerca è all’origine del progresso e dunque della crescita economica. La ricerca crea ricchezza, non la inghiotte».
I deserti
Mi manca viaggiare, nei deserti soprattutto. Luoghi incontaminati che trasmettono una solitudine immensa e un senso d’angoscia. Come l’Arizona
Cosa le manca di più?
«Viaggiare, nei deserti soprattutto. Luoghi incontaminati che trasmettono una solitudine immensa e un sottile senso d’angoscia. L’ultimo che ho attraversato è stato in Arizona: bellissimo».
E la pittura barocca?
«Me ne sono occupato per dieci anni, ho fatto anche delle consulenze. È così simile alle mie ricerche... ma era diventata una droga, ho smesso. Prendo giusto qualche quadro ogni tanto, all’asta, se me lo posso permettere».