Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
IL FUTURO AMBIDESTRO DI VENEZIA
Considerazione amara. Ci voleva il coronavirus per rendere indiscutibile quello che, a chi lo avesse voluto vedere, era evidente da tempo: l’insostenibilità della strategia di conservazione del bene culturale Venezia fondata sul solo turismo di massa. Sì di massa, perché il turismo colto, quello attratto dai capolavori artistici e dagli eventi culturali veneziani era solo il cacio sui maccheroni delle folle di foresti, vaganti tra San Marco e Rialto, che si erano impadroniti dell’economia della città, di Venezia storica, ma anche di buona parte della Venezia di terraferma e di mezzo Veneto, sempre più ingolosito dalla possibilità di far lì dormire i visitatori pendolari diretti alla città lagunare. Fino a ieri ci preoccupavamo delle distorsioni prodotte da questi fenomeni sulla città storica, requisita dal turismo - con uno spiazzamento progressivo di ogni attività residenziale e produttiva non turistica - e quindi impedita di vivere in relazione fisiologica dentro la Venezia metropolitana che si era formata al di là della laguna: le mura della Venezia medievale. Ma non pensavamo che il pericolo mortale della monocoltura turistica si nascondesse nella sua possibile caduta di schianto.
Ci ha pensato il coronavirus. Oggi Venezia, l’urbs, ci appare in tutta la sua drammatica bellezza, liberata da ogni superfetazione turistica. Ma alla bellezza restituita all’urbs corrisponde il dramma della civitas: delle migliaia di addetti ai servizi alberghieri, di ristorazione e di trasporto, ai negozi di specialità veneziane, di maschere o di vetri di Murano, e di ogni altra attività legata alla filiera del turismo, che da quasi due mesi vivono, da veneziani invisibili, il dramma del lavoro perduto, rinchiusi dal lockdown nelle loro case di Mestre, di Spinea, di Mirano, ma anche di molti comuni del trevigiano e del padovano, dove sono sorti alberghi e si sono convertite residenze private a servizio dell’attrattore turistico Venezia storica.
Un’industria turistica la cui offerta, inquietante preoccupazione per il dopo virus, difficilmente potrà essere saturata ai livelli ante pandemia. Almeno finché questa non sarà stata sradicata da ogni angolo della terra o messa in condizione di non nuocere dall’agognato vaccino.
Questo per le caratteristiche del turismo urbano in generale e di quello veneziano in particolare. Il caso di Venezia è emblematico nella sua crudezza.
Se il coronavirus ha
bisogno di densità per circolare velocemente e connettività per spaziare in tutto il mondo, il turismo nelle città d’arte alimentato da visitatori provenienti da ogni parte del mondo ne è allo stesso tempo il complice e la vittima predestinata.
Esso crea infatti la densità artificiale del concentrarsi in Venezia storica di un numero di visitatori che fino a ieri tendeva ad eccedere la sua capacità di accoglienza e una altrettanto specifica connettività globale -utile al trasporto dei germi da e per i luoghi più lontani dovuta alla grande prevalenza di visitatori esteri.
Se a questo si aggiunge che l’ azzeramento attuale della domanda turistica su Venezia non è, come per gli altri settori produttivi, esclusiva conseguenza della decisione governativa di lockdown, ma frutto in larga misura di decisioni autonome dei potenziali clienti, si comprende quanto delicata sia la situazione.
La capacità di carico turistico del centro storico è destinata a contrarsi per adeguarsi ad un qualche grado permanente di distanziamento sociale; il turismo internazionale subirà una sorta di deglobalizzazione riducendo il raggio dei suoi viaggi.
Venezia tornerà ad essere una destinazione turistica eccellente, ma scontando un livello di attività inferiore a quella di oggi e con un bacino di offerta residenziale che ne risentirà a partire dai suoi margini padovani e trevigiani.
Una rivoluzione nella base economica sulla quale vive la civitas veneziana e, di conseguenza, sulla sostenibilità economico finanziaria della preservazione del bene culturale Venezia.
Una situazione trattabile solo entro la logica di una «gestione ambidestra» della strategia di sviluppo futuro di Venezia, da reinventare in tutte le sue dimensioni dal centro storico al più grande organismo metropolitano. Una gestione nella quale diventa urgente combinare l’ «esplorazione» probiotica del futuro possibile (funzioni metropolitane terziarie superiori ridefinite nel nuovo mondo digitale o quelle connesse da una rilettura post Covid-19 anche del blocco portomanifattura) con la «reinvenzione» antibiotica del presente (l’economia turistica).
Una gestione ambidestra che nel farsi carico del privilegio di mantenere il bene culturale Venezia deve sfuggire alla tentazione quella ricorrente, che ha segnato in negativo almeno gli ultimi cento anni di storia veneziana - di rinchiudere Venezia nel suo passato. E’ il momento della transizione alla modernità di un bene culturale apprezzato come Urbs, ma che può vivere solo come Civitas..