Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

Frisa: «Donne, anche in casa mai con la tuta»

Frisa, docente allo Iuav: «Vestire bene aiuta ad affrontare la giornata, viva i tacchi. E alle video riunioni come fossimo usciti dal letto non va bene»

- Di Sara D’Ascenzo

Anche in casa, mai in tuta da ginnastica. La docente di Moda allo Iuav di Venezia Maria Luisa Frisa spiega perché non è una buona idea rinunciare a curarsi.

Santo Karl Lagerfeld, aiutaci tu. Se il venerato stilista amava ripetere che i «pantaloni della tuta sono un segno di sconfitta», aggiungend­o che uscire con la tuta denuncia la perdita «del controllo sulla vostra vita», domanda precisa fatta a Maria Luisa Frisa, critico e fashion curator, direttore del Corso di Laura in Design della moda all’Università Iuav di Venezia, la risposta non può che essere una sola: «Con la tuta mai».

Frisa, metà degli italiani hanno passato questi mesi in tuta. L’altra metà in pigiama. Le occasioni di uscita mondane sono azzerate. È la vittoria della tuta?

«Tutti abbiamo visto la foto di Anna Wintour (la donna più temuta e potente della moda, ndr) con i pantaloni della tuta e la maglia marinière al tavolo di casa sua: quella foto ha fatto dire a tutti: “Ma se la Wintour si mette in tuta, ce la possiamo mettere anche noi...”. Sicurament­e abbiamo sempre inteso la differenza tra comodità casalinga e l’idea di un vestire rilassato identifica­to con la tuta. Io credo invece che, proprio perché c’è il rischio abbrutimen­to e le donne hanno rinunciato perfino a truccarsi, corriamo un pericolo: la deriva fantozzian­a. Siccome non mi vedono gli altri, allora è rutto libero…».

Ma lei, la tuta la usa?

«Non ne metto una dall’età di 16 anni, come le scarpe da ginnastica. Vestirmi per bene mi aiuta ad affrontare la giornata con maggior piglio: il modo di vestirsi si riflette nel nostro atteggiame­nto. Poi c’è anche un dovere nei confronti delle persone con cui stiamo comunicand­o con le diverse piattaform­e. In questi giorni faccio lezione agli studenti da casa e mi è capitato di fare riunioni con persone che sembravano appena uscite dal letto: non va bene. Già ci stiamo rinchiuden­do in noi stessi... Anche la tuta più modaiola, se non fa parte del tuo modo di vestire fa: “sto in casa in ciabatte e tuta”. Insomma non farei l’elogio dello “stiamo a casa stravaccat­i”».

Va bene, niente tuta. Tacco 12 per fare la spesa?

«La nostra socialità in questo periodo è stata consumata nei momenti della spesa, l’acquisto del giornale, la fila al supermerca­to. Sono momenti di sollievo, nel senso che incontri persone che conosci, che non senti da un po’. Ci danno gioia le piccole cose: la libreria vicino casa che ha riaperto, quella che vende libri usati… Insomma, quando esci è un momento in cui ti presenti al mondo: devi piacerti. Perché il problema non è piacere agli altri, ma piacere a se stessi. Se mi guardo allo specchio e mi trovo orrenda, il mio umore ne risente tantissimo, se mi vedo abbastanza bene, di conseguenz­a starò meglio».

Dunque anche tacco. Ma come si fa a sentirsi bene senza estetisti e parrucchie­ri?

«Lo ammetto. Uno dei miei grossi problemi in questo periodo sono i capelli: un’altra deriva di questo lockdown. La mancanza del parrucchie­re credo sia una delle cose che ha creato più danni in assoluto. Per me è un dramma: mi sono comprata delle mollette, in veneziano bubi, me le metto per evitare l’effetto Sor Pampurio, e a colpi di crema e lacca prima delle lezione riesco a farli stare…».

La nostra vita sociale anche a emergenza finita probabilme­nte cambierà. Avrà ancora senso prendersi cura di sé?

«Dobbiamo renderci conto che, anche se non c’è più quella vita sociale per cui ci preparavam­o, la cura della persona è qualcosa che noi dobbiamo prima di tutto a noi stessi. Come insegnava Irene Brin alle donne del Dopoguerra: essere in ordine è un atteggiame­nto. Noi donne dobbiamo ricordarci che se ci sentiamo bene siamo più battaglier­e».

” Non indosso una tura dall’età di sedici anni, così come le scarpe da ginnastica. Vestirmi per bene mi aiuta ad affrontare la giornata con maggior piglio: il modo di vestirsi si riflette nel nostro atteggiame­nto

Usciamo e già siamo limitati dalla mascherina. Lei è per le mascherine trattate come accessorio moda?

«Io non amo quel genere di cose, sono per la funzionali­tà, sono per la chirurgica che si butta via. Quando non si trovavano, uscivo con una mascherina fatta da mio marito con la carta da forno. Ora ne ho trovata una a papera, che mi permette di avere il rossetto sotto, perché non tocca la bocca. A quel punto ne ho comprato una serie. Mi dava molto fastidio non poter mettere il rossetto».

Anche sui social le cose stanno cambiando: vediamo vacanze e aperitivi passati o piatti fatti in casa.

«Le foto del passato mi fanno tanto “nostalgia canaglia”. Non dobbiamo illuderci che tutto torni come prima, personalme­nte lo trovo sbagliato: ognuno deve vivere il presente e sentirsi cittadino del proprio tempo. Postare le feste, i vestiti fantastici del Met gala del passato, perché vuoi ricordare l’ “eventone”, che era anche un “eventone” un po’ sbagliato, mi mette tristezza. Questo coronaviru­s ci ha detto anche che stavamo un po’ sbagliando rispetto a un certo modo di vivere. Certo non vuol dire cospargers­i il capo di cenere e non vestirci più: anzi. Io sogno l’aperitivo alle Zattere con gli amici. E quando succederà, se avrò voglia, metterò una cosa nuova che mi faccia percepire che sto nascendo a una vita nuova. Ricordiamo­ci che non dobbiamo demonizzar­e la moda in quanto vestiti, perché gli abiti ci aiutano a rappresent­arci, ci danno la forma sociale. E che per regioni come Veneto, Emilia-Romagna, Toscana e Lombardia è fondamenta­le per la filiera del nostro Paese».

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Corso di laurea in
Design della moda e Arti multimedia­li all’Università Iuav di Venezia. Ha curato numerose mostre sul tema
Fashion Maria Luisa Frisa, critico e fashion curator, è direttore del Corso di laurea in Design della moda e Arti multimedia­li all’Università Iuav di Venezia. Ha curato numerose mostre sul tema

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