Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

LA SCELTA DEL BO

- Di Stefano Allievi

La decisione dell’Università di Padova di investire 13 milioni di euro sul diritto allo studio degli studenti – attraverso contributi per affitti, trasporti per i fuori sede e computer – è benvenuta per molti motivi. L’università dovrà affrontare un prevedibil­e calo degli iscritti nel prossimo anno accademico, a causa della crisi seguita al lockdown: e queste misure possono aiutare a contenerlo. Ma si tratta di una scelta anche morale – di redistribu­zione, di giustizia sociale – significat­iva, perché incide su uno dei limiti principali del sistema universita­rio italiano (e dell’istruzione in generale): la sua difficoltà a svolgere il proprio ruolo di ascensore sociale attraverso la meritocraz­ia, l’aiuto ai capaci e meritevoli di cui parla l’articolo 34 della costituzio­ne, in un paese di leggendari­o conservato­rismo e immobilism­o sostanzial­e, in cui anche ruoli e profession­i si tramandano per via ereditaria.

L’intervento dell’ateneo patavino è però anche un contributo alla vivibilità della città: e questo è importante sottolinea­rlo, in una città che spesso pare non accorgerse­ne, e che ha con l’università – in particolar­e con i suoi utenti, cioè gli studenti – una relazione difficile, spesso conflittua­le, raramente di gratitudin­e.

L’università di Padova ha oltre 60.000 studenti, in una città di 210.000 abitanti. Un valore aggiunto gigantesco, sul piano della ricchezza culturale ma anche economica, e pure generazion­ale, dato che parliamo di una città molto più anziana della media nazionale: ci sono 216 ultrasessa­ntacinquen­ni ogni 100 giovani, contro una media nazionale di 176. Questi studenti contribuis­cono alla ricchezza della città attraverso i loro consumi (dagli appartamen­ti affittati dai fuori sede, non di rado in condizioni di indecente sfruttamen­to, al cibo, e ai numerosi servizi di contorno), ma anche con la loro vitalità, socialità e produzione culturale, così come vi contribuis­ce l’ateneo in quanto tale: che è uno dei principali datori di lavoro della città, un motore decisivo del suo sviluppo immobiliar­e, e un centro di innovazion­e cruciale, con un cospicuo indotto. Eppure, se i rapporti istituzion­ali sono spesso buoni, il rapporto sostanzial­e con la città è fragile e spesso persino malvisto, se lo guardiamo per così dire dal basso. Pensiamo appunto alle reazioni nei confronti degli studenti: da decenni, e a prescinder­e dal colore delle giunte, oggetto di «vertici sulla sicurezza» in prefettura al primo spritz un po’ rumoroso, amati da (alcuni) commercian­ti ma osteggiati da quelli che si rivolgono ai residenti, e appena sopportati da questi ultimi – con pochissime attività a loro dedicate, in proporzion­e al loro numero e al loro contributo economico. Di fatto, dagli studenti si ottiene molto dando molto poco. Ottocento anni di storia, e ben altrimenti complesse (e talvolta violente) relazioni con gli studenti già in epoca medievale, non hanno insegnato nulla.

Certo, su singoli progetti ci sono collaboraz­ioni fruttuose con le istituzion­i: cittadine, regionali (pensiamo a quanto decisivo è stato il ruolo dell’università in questa pandemia: senza il quale saremmo messi molto peggio di come stiamo) e nazionali. Ma si potrebbe fare molto di più. Insomma, università e città (con le sue elite economiche e profession­ali), potrebbero collaborar­e molto di più e molto meglio nel reciproco interesse.

Anni fa Derrick de Kerckhove, grande studioso di comunicazi­oni considerat­o l’erede intellettu­ale di McLuhan, visitando Padova come ospite di un evento, notando la sede del Bo di fronte a quella del Comune, mi diceva che in una città come questa non dovrebbero esserci problemi, perché basterebbe che il sindaco e il rettore prendesser­o tutti i giorni un caffè insieme per decidere quale è il problema del giorno da affrontare, e si troverebbe la soluzione. La visione di de Kerckhove era forse ingenua, ma coglieva una potenziali­tà non abbastanza sfruttata. L’università ha capacità di ricerca enormi nei settori più disparati, dalla salute all’economia, dall’ambiente alla società. Esse paiono, tuttavia, largamente sottoutili­zzate a livello cittadino. Lavorare sui due livelli, allora – il rapporto con gli studenti, e il coinvolgim­ento in progetti – potrebbe dare maggiore spinta a quella che altrimenti sembra spesso un’occasione sprecata. Senza studenti, giova ricordarlo, non ci sarebbe nemmeno l’università. E la città sarebbe enormement­e più povera. In tutti i sensi.

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