Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
LA SCELTA DEL BO
La decisione dell’Università di Padova di investire 13 milioni di euro sul diritto allo studio degli studenti – attraverso contributi per affitti, trasporti per i fuori sede e computer – è benvenuta per molti motivi. L’università dovrà affrontare un prevedibile calo degli iscritti nel prossimo anno accademico, a causa della crisi seguita al lockdown: e queste misure possono aiutare a contenerlo. Ma si tratta di una scelta anche morale – di redistribuzione, di giustizia sociale – significativa, perché incide su uno dei limiti principali del sistema universitario italiano (e dell’istruzione in generale): la sua difficoltà a svolgere il proprio ruolo di ascensore sociale attraverso la meritocrazia, l’aiuto ai capaci e meritevoli di cui parla l’articolo 34 della costituzione, in un paese di leggendario conservatorismo e immobilismo sostanziale, in cui anche ruoli e professioni si tramandano per via ereditaria.
L’intervento dell’ateneo patavino è però anche un contributo alla vivibilità della città: e questo è importante sottolinearlo, in una città che spesso pare non accorgersene, e che ha con l’università – in particolare con i suoi utenti, cioè gli studenti – una relazione difficile, spesso conflittuale, raramente di gratitudine.
L’università di Padova ha oltre 60.000 studenti, in una città di 210.000 abitanti. Un valore aggiunto gigantesco, sul piano della ricchezza culturale ma anche economica, e pure generazionale, dato che parliamo di una città molto più anziana della media nazionale: ci sono 216 ultrasessantacinquenni ogni 100 giovani, contro una media nazionale di 176. Questi studenti contribuiscono alla ricchezza della città attraverso i loro consumi (dagli appartamenti affittati dai fuori sede, non di rado in condizioni di indecente sfruttamento, al cibo, e ai numerosi servizi di contorno), ma anche con la loro vitalità, socialità e produzione culturale, così come vi contribuisce l’ateneo in quanto tale: che è uno dei principali datori di lavoro della città, un motore decisivo del suo sviluppo immobiliare, e un centro di innovazione cruciale, con un cospicuo indotto. Eppure, se i rapporti istituzionali sono spesso buoni, il rapporto sostanziale con la città è fragile e spesso persino malvisto, se lo guardiamo per così dire dal basso. Pensiamo appunto alle reazioni nei confronti degli studenti: da decenni, e a prescindere dal colore delle giunte, oggetto di «vertici sulla sicurezza» in prefettura al primo spritz un po’ rumoroso, amati da (alcuni) commercianti ma osteggiati da quelli che si rivolgono ai residenti, e appena sopportati da questi ultimi – con pochissime attività a loro dedicate, in proporzione al loro numero e al loro contributo economico. Di fatto, dagli studenti si ottiene molto dando molto poco. Ottocento anni di storia, e ben altrimenti complesse (e talvolta violente) relazioni con gli studenti già in epoca medievale, non hanno insegnato nulla.
Certo, su singoli progetti ci sono collaborazioni fruttuose con le istituzioni: cittadine, regionali (pensiamo a quanto decisivo è stato il ruolo dell’università in questa pandemia: senza il quale saremmo messi molto peggio di come stiamo) e nazionali. Ma si potrebbe fare molto di più. Insomma, università e città (con le sue elite economiche e professionali), potrebbero collaborare molto di più e molto meglio nel reciproco interesse.
Anni fa Derrick de Kerckhove, grande studioso di comunicazioni considerato l’erede intellettuale di McLuhan, visitando Padova come ospite di un evento, notando la sede del Bo di fronte a quella del Comune, mi diceva che in una città come questa non dovrebbero esserci problemi, perché basterebbe che il sindaco e il rettore prendessero tutti i giorni un caffè insieme per decidere quale è il problema del giorno da affrontare, e si troverebbe la soluzione. La visione di de Kerckhove era forse ingenua, ma coglieva una potenzialità non abbastanza sfruttata. L’università ha capacità di ricerca enormi nei settori più disparati, dalla salute all’economia, dall’ambiente alla società. Esse paiono, tuttavia, largamente sottoutilizzate a livello cittadino. Lavorare sui due livelli, allora – il rapporto con gli studenti, e il coinvolgimento in progetti – potrebbe dare maggiore spinta a quella che altrimenti sembra spesso un’occasione sprecata. Senza studenti, giova ricordarlo, non ci sarebbe nemmeno l’università. E la città sarebbe enormemente più povera. In tutti i sensi.