Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
La mascherina resiste al primo giorno di libertà
Cadono gli obblighi ma la maggioranza tiene la mascherina
PADOVA– Sta a vedere che ci siamo accoccolati - c’è chi dice appecorati - hai visto mai che in fondo ci troviamo bene e che alla fine ci piace? il primo giorno in cui cade l’obbligo di indossare la mascherina all’aperto, la museruola regge, sta su.
– Sta a vedere che ci siamo accoccolati - c’è chi dice appecorati - hai visto mai che in fondo ci troviamo bene e che alla fine ci piace? Il primo giorno in cui cade l’obbligo di indossare la mascherina all’aperto, la museruola regge, sta su, al massimo penzola o ondeggia, la si porta con distratta nonchalance o con compunzione protocollare, con sdegno o in letizia, alta o bassa sul mento, a guisa di gorgiera elisabettiana o semplicemente in mano, ma la si porta. Insomma, la celata del nascondimento virale sale e scende, ma nella maggior parte dei casi sta su e la mascherina, libera di essere interpretata, mai come ieri si mostra in una stupefacente varietà di modi.
L’inaffidabile doxa che vi dà di conto, da Prato della Valle al Santo fino su a San Francesco e piazza delle Erbe, ieri, in tre quarti d’ora, a Padova, ha contato 102 maschero-muniti e 63 in deshabillé. Se fosse un voto sarebbe una bocciatura – Zaia libera e noi preferiamo la cella - se fosse inerzia dovrebbe preoccuparci il moto – e quando si fermerà mai il trascinamento di questa pandemia? – fosse solo ed esclusivamente precauzione civile esulteremmo per il principio, ma attenzione perché, come diceva Longanesi, i principi, ad appoggiarvisi, si piegano.
Raccontiamolo quindi allegramente questo secondo giorno di libertà (il primo fu dell’autocertificazione ed era più serioso), a partire da Vicenza che sembra più ligia di Padova, in bici o a piedi, col cane o con i figli tutti con la mascherina. Il ragazzo seduto davanti alla chiesa di Santo Stefano immusonito sul cellulare si spiega rapido (e chi del resto chi non è immusonito con la «musagna», in dialetto veneto la maschera), pronto esaurisce subito l’argomento: «Da oggi non danno le multe, lo so, io la porto ugualmente perché è più sicuro». Giovani sì, in numero forse inferiore, donne non diversamente dai maschi, gli anziani magari di più, chiedi in giro e tutti te la spiegano con la sicurezza anche se nessuno sembra aver paura: diligenti caso mai, disciplinati e consapevoli, tutti allievi di Roberto Burioni, ma non impauriti. «Meglio, per la sicurezza, per prevenzione». All’opposto, i discepoli del professor Zangrillo (quello che la pandemia è clinicamente estinta) sono una minoranza senza peraltro riuscire altrettanto sfacciati: «Ce l’ho in borsa, anzi no – fa la signora guardandoci dentro, ma si capisce - me la sono dimenticata, quando vado a fare la spesa me la ricordo».
Paura? No, la paura spiega niente e nessuno te la spiega. Se due partiti sono non si combattono, né si oppongono: zangrilliani e burioniani convivono mescolandosi in piazza dei Signori nel modo amabile in cui la gente accetta normalmente le altrui bizzarrie della moda, ognuno si conci come vuole. Non sembra di stare a Vicenza, né a Padova, a Singapore o a Taiwan caso mai, la commiserazione con la quale guardavamo gli orientali sul ponte di Rialto solo tre mesi fa – a passettini, con la loro mascherina e i loro selfie adesso ce la siamo dimenticata, in tre mesi siamo diventati noi i giapponesi.
«Giapponesi un fico secco, siamo pecoroni, altrimenti non si capirebbe il salto: perché oggi sì e ieri no, perché non domani? - fa l’oste di via Dante a Padova – perché se era necessaria ieri non lo è anche oggi, e se è inutile adesso perché non lo era prima? Questi suonano il gong e pretendono che sia tutto finito». La paura non spiega, il senso civico non basta, la mascherina vacilla e rischia di cadere nell’ambito del costume: «E’ così - fa uno in Prato della Valle, un giovane che deve aver fatto il Dams perché si vede che ha pratica di Eco - la mascherina – spiega - aggiunge una nuova lettera al sillabario del proporsi, è un mezzotono in più sulla tastiera dell’apparire o, se vuole, una variante aggiunta del linguaggio metaverbale». Passa il metaverbale che ce l’ha bassa, «sono in modalità easy» dice; passa quella che la sventola al ritmo della gonna, «sono libera e gioconda», quello che si coprirebbe tutto con un lenzuolo dice: «Sono catafratto e indisponibile».
«Ecco – fa il compagno di semiotica – la permanenza della mascherina può essere interpretata come effetto lungo della sanzione sociale positiva per chi la indossa»; antropologia culturale al quarto anno, ma il ragazzo potrebbe aver ragione: non era sanzione sociale negativa quella che ci faceva ridere dei giapponesi sul ponte di Rialto? E non è positiva quella che ci attribuiamo adesso? Il flusso si è invertito e ora, per come siamo messi, tra il metterla e il non metterla, mobbizzati tra gli opposti virologi e in balia del volubile governativo, ognuno fa come vuole. Vedi la famigliola in piazza dei Signori, babbo con mascherina, figlio con caschetto, la piccola non ce l’ha, la mamma splendidamente incinta e incurante della protezione, lo bacia, una famiglia perfetta.
Soffriamo di «anomia cognitiva» e dovremmo suicidarci secondo la teoria di Emile Durkheim ma il sociologo francese aveva torto: la sospensione è piacevole, la mancanza di norme allarga l’interpretazione. Meglio rivolgerci a Karl Lagerfeld, il maestro della stravaganza diceva che «la moda non è morale né immorale, è fatta per tirare su il morale».
” L’oste Giapponesi un fico secco, siamo pecoroni. Questi suonano il gong e pretendon o che tutto sia finito