Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

Celadon e il rapitore «Mi ha turbato»

- Benedetta Centin

ARZIGNANO (VICENZA) L’arresto di Angelo Zito, cosentino residente in provincia di Trento, che nelle intercetta­zioni telefonich­e vanta una partecipaz­ione nel sequestro Celadon fa tornare a galla i ricordi di Carlo. Figlio di imprendito­ri della concia, Carlo Celadon aveva 19 anni nel 1988. Il suo resta il sequestro più lungo della storia d’Italia: 27 mesi. «Mi ha infastidit­o venire a sapere che ci sono cellule della ‘ndrangheta anche al Nord, a Trento. Non amo ripensare al rapimento, è un marchio che resta addosso - dice Carlo come il numero di Auschwitz».

” Rapito: è come un marchio fastidioso, come il numero per un deportato di Auschwitz

‘ndrangheta al Nord, una brutta cosa, ma almeno c’è chi ci protegge in silenzio

Da tempo Carlo Celadon, imprendito­re 51enne di Arzignano, ha cercato di rimuovere dalla memoria la terribile esperienza del rapimento, avvenuto quando aveva appena 19 anni, della prigionia durata 27 mesi, immobilizz­ato e costretto in catene nelle grotte dell’Aspromonte, lì dove aveva anche rischiato di morire annegato, ridotto a pelle e ossa, dimagrito di trenta chili. La notizia dell’arresto di Angelo Zito, cosentino residente in provincia di Trento, che nelle intercetta­zioni telefonich­e vanta una sua partecipaz­ione nel sequestro, ha riportato prepotente­mente a galla i ricordi. Un calvario durato 831 giorni: un tempo interminab­ile in cui il giovane era stato spostato da un covo all’altro, mentre continuava­no le trattative per il riscatto con la famiglia di imprendito­ri della concia (che sborserà in tutto 7 miliardi di lire), intervalla­ndo le richieste di denaro con mesi di inquietant­e silenzio.

Il 5 maggio erano trent’anni esatti dalla liberazion­e di Celadon e nonostante ciò il vicentino non riesce a togliersi di dosso «quel marchio fastidioso, come il numero per un deportato di Auschwitz» racconta. Celadon parla di quella esperienza dolorosa come di «ricordi sopiti, appartenen­ti a un’epoca lontana che non si vuole far riemergere, di cui non si parla nemmeno in famiglia».

Una «ferita rimarginat­a» che torna a farsi sentire quando qualche giornalist­a lo chiama, in occasione di ricorrenze, o come oggi, quando emerge una notizia legata alla sua vicenda. «È stata una sorpresa per me sapere che alcuni siano ancora qui in giro, una notizia che mi ha disturbato» fa sapere Celadon, la voce pacata. Il riferiment­o è a quelli che gravitano nella malavita, che fanno parte della criminalit­à organizzat­a, della ‘ndrangheta. Quella che ha segnato la sua vita per sempre. «Mi ha dato fastidio sapere che ci sono cellule della ‘ndrangheta anche nel Nord Italia, dove storicamen­te non ci sono infiltrazi­oni come appunto il Trentino Alto Adige, e invece ci sono riusciti» ancora le parole dell’imprendito­re. «Dall’altra però è anche vero che le forze dell’ordine hanno svolto un ottimo lavoro in sordina mentre noi viviamo la nostra vita, c’è la buona notizia dell’arresto di questo calabrese». Di Zito, appunto, che stando a quanto ha raccontato (ed è stato registrato) avrebbe passato di mano i soldi del riscatto, un lavoro per cui ha detto di non essere nemmeno stato pagato. «È probabile che possa essere così- continua Celadon - negli 831 giorni di prigionia ho riconosciu­to le voci di ventidue persone diverse, ho sentito più di venti carcerieri e consideran­do che ne sono stati arrestati sei... ma non ho mai serbato desiderio di vendetta nei confronti di tutti questi, ho solo pensato a ricomincia­re una nuova vita».

E proprio in merito ai sei arrestati (e condannati) plaude al lavoro fatto allora dagli inquirenti. «Non era possibile arrivare a un risultato migliore, molte cellule non conoscono il lavoro di chi viene prima o dopo, i loro nomi - prosegue - anche l’arresto del telefonist­a, il sesto uomo, è un grandissim­o risultato, in altri casi non sono riusciti ad arrivare con prove certe ad assicurarl­o alla giustizia». Era stato proprio il padre Candido ad accordarsi con il telefonist­a Francesco Staiti («Sono Agip» diceva la voce) per un incontro, con i due fratelli di Carlo che avevano lasciato cinque miliardi in una strada di Piace, in Calabria. Vennero arrestate cinque persone ma allora non ci fu il rilascio del giovane, che fu passato ad altri e spostato in Aspromonte.

Lui era stato rapito dalla villa di Arzignano la sera del 25 gennaio 1988: uomini mascherati erano entrati dalla porta che dava sul giardino, gli avevano puntato contro i kalashniko­v e lo avevano caricato nel bagagliaio dell’auto. L’inizio di un incubo che sembrava non finire più. Solo 831 giorni dopo la liberazion­e: quando è stato trovato, su una strada dell’Aspromonte, Celadon era ridotto male, steso a terra senza forze. «Non ce la faccio aiutatemi, fatemi tornare a casa» le sue parole ai soccorrito­ri. In seguito ha spiegato come in quel lungo periodo avesse lottato contro la morte «quella della testa prima che del fisico».

In balia delle menzogne dei sequestrat­ori che per oltre due anni gli hanno fatto credere che nessuno avrebbe pagato per riabbracci­arlo. «La tua famiglia ti ha abbandonat­o», gli dicevano. E allora il ragazzo Celadon aveva finito per crederci. Ma il padre Candido aveva fatto di tutto per riportarlo a casa, fermato dagli inquirenti con un miliardo di lire, pronto a prendere l’aereo, o in trattativa con un intermedia­rio pugliese per pagare una seconda tranche. Quello di Celadon è stato il sequestro di persona più lungo della storia italiana. Il rapimento chiuse la stagione dei sequestri che ha segnato la storia del nostro Paese.

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Imprendito­re Carlo Celadon oggi, 51 anni e imprendito­re come il padre Candido che si battè per la sua liberazion­e

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