Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

Il cantore del Novecento popolare

Note e impegno politico, il veneziano artista-mito degli anni ‘60 e ‘70 con «Canzoniere popolare veneto»

- Di Massimilia­no Cortivo

Note e impegno politico, Alberto D’Amico, il veneziano artista-mito degli anni Sessanta con «Canzoniere popolare veneto» è scomparso ieri all’età di 76 anni.

Massimo Cacciari

Ha scritto pagine bellissime del Novecento popolare, affreschi Ha anticipato i tempi

«A ppassionat­o, disincanta­to, poetico, impegnato, sensibile, duro, realistico e visionario. Tra i musicisti popolari era il migliore, e non credo solo a Venezia. Di gran lunga quello che ha ricevuto meno, non è stato affatto valorizzat­o». Per capire veramente chi fosse Alberto D’Amico (musicista veneziano scomparso giovedì a 76 anni a Santiago di Cuba, dove viveva da 25 anni) abbiamo chiesto a chi lo ha frequentat­o per una vita intera, Massimo Cacciari. Di un anno più giovane, ha condiviso con lui un percorso fatto di impegno politico e di militanza, ma anche di sentimenti cristallin­i, di passioni. Di vita, quella vera. «Mi ha appena dato una bruttissim­a notizia», dice al telefono pesando le parole e probabilme­nte vedendo accavallar­si davanti agli occhi immagini e immagini. «Non lo conoscevo bene, di più. Chi era? Un artista che attraverso le sue canzoni ha scritto pagine bellissime del Novecento popolare. Affreschi». Cominciò con il Nuovo Canzoniere

Italiano e poi con Luisa Ronchini e Gualtiero Bertelli (altro totem, citiamo solo Nina ti te ricordi riportata al successo da Giovanna Marini e Francesco De Gregori) fondò il Canzoniere Popolare Veneto. Con loro fece prima riscoprire il patrimonio delle canzoni popolari e dei canti di lavoro di Venezia e poi le lotte operaie di fine anni sessanta e le relative trasformaz­ioni sociali. Il successo, e forse anche il momento più alto della sua carriera artistica, arrivò nel 1973 con l’album «Ariva i barbari». «È la sua canzone che amo di più – ricorda Cacciari: ironica e disincanta­ta, mette insieme la storia di Venezia, dalle invasioni che portarono alla sua fondazione, alla Repubblica Serenissim­a, fino al ‘68». Un periodo di lotte che D’Amico, figlio di poliziotto e arrivato in laguna da Trapani con la madre e le sorelle, affrontava sempre di petto, scendendo in piazza (in campo, ad esser precisi) contro tutti e tutto. E poi facendo confluire la rabbia dentro la forma canzone. «Li ricordo eccome, quegli anni – commenta Cacciari Direi che D’Amico è stato la voce profonda e leggera di un mondo che non c’è più, di ambienti irripetibi­li, come quello della sua Giudecca in cui la musica era rappresent­ata dal suo canto ruvido ma al tempo stesso dalle note di Luigi Nono. Universi lontanissi­mi eppure dialoganti». Un mondo, il suo, il loro, che non c’è più. «Viviamo l’epoca del social distancing – prosegue il filosofo -. E non per via del Covid, la pandemia ha solo esaltato questo processo che è iniziato da tempo. Mi dica lei: ritiene possibile che uno studente della Bocconi oggi possa frequentar­e il figlio di un operaio, un appartenen­te alla working class? Uno come D’Amico gli studenti non lo possono conoscere. Figuriamoc­i, non si conoscono nemmeno tra loro!». E se però facciamo sommessame­nte notare che Bob Dylan va per gli ottanta, Cacciari allora ruggisce: «Benissimo, ma siamo proprio sicuri che sia tanto più bravo? Quando faccio ascoltare certi brani di D’Amico ad alcuni ragazzi riscontro sempre un grande consenso. Significa che i temi non sono poi così datati». In certi brani ha saputo addirittur­a anticipare i tempi. La massificaz­ione del turismo, per esempio, la cantava già a fine anni Sessanta.

«Sapeva guardare avanti, è vero - sapeva denunciare, ma lo faceva con leggerezza e ironia. È stata questa la sua forza». Poi canticchia:

«Cipriani se magna la bisteca… (ride)». Un altro verso di quella stessa canzone dice Giudeca nostra abandonada. «Ce lo siamo detti anche una delle ultime volte che ci siamo visti - ricorda -. Altro che “abandonada”, gli ho ricordato, guarda adesso che fine ha fatto». Nostalgia? «Per l’amico ora sì. Ma per il passato no, non bisogna mai provare nostalgia. Il tempo non torna. E se per accidente lo fa, c’è il rischio che sia sotto forma di farsa». Venezia dovrebbe ricordarlo? «Dovrebbe farlo, certo, e come si deve anche. (Sospira). Ma cosa vuole che ormai… la città… lasciamo stare».

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Simbolo Alberto D’Amico da 25 anni abitava a Cuba

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