Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Manara: «Così Hugo Pratt mi ha cambiato la vita»
Il papà di Corto Maltese morì 25 anni fa: il ricordo dell’amico Il disegnatore veronese: «Mi ha insegnato a scrivere le storie da solo»
Voleva che continuassi le avventure del marinaio poi non se ne fece nulla e di sicuro non disegnerò mai Corto. Hugo non è mai andato in cerca del successo, voleva solo raccontare sé stesso
Venticinque anni senza. Hugo Pratt, nato nel 1927 a Rimini, è scomparso il 20 agosto 1995. Al «maestro di Malamocco» si deve la paternità del marinaio avventuriero, Corto Maltese, e ancora più l’aver offerto al fumetto l’apertura verso la «letteratura disegnata» eoni prima di quanto il termine graphic novel fosse sulla bocca di tutti. Un insegnamento diventato china su tante tavole di Milo Manara che, quando ci accoglie nel suo studio in Valpolicella, non è circondato solo da tavolozze e tele, ma da un’infinità di romanzi, libri d’arte, viaggi e fumetti, che sono forse il segno più concreto di quanto gli sia stata cara la lezione del maestro.
I ricordi sono capricciosi, quando pensa a Hugo Pratt quale è il primo che le ritorna alla memoria?
«Me ne vengono in mente almeno tre. Il primo è di quando cantava, accompagnandosi con la chitarra, ballate irlandesi e tanghi sudamericani. Ricordo poi quando, mentre realizzava i suoi acquerelli, si divertiva a stupirmi, iniziando da elementi isolati che univa in un lampo facendo saltare fuori qualcosa di meraviglioso. L’altro ricordo è di lui al ristorante, una situazione sempre delicata: se le cose non erano perfette, mandava tutto indietro e faceva un quarantotto».
Il primo incontro con Pratt se lo ricorda?
«Credo fosse il 1968 a Lucca. Avevo appena iniziato a conoscere i fumetti; quando lessi la Ballata del mare salato fu una rivelazione: capii che il fumetto era una cosa seria. All’incontro mi presentai e mi genuflessi davanti a lui. Entrammo subito in confidenza, tanto che mi chiese di riaccompagnarlo a Parigi. Da quella volta ci siamo visti regolarmente, ai festival, a Malamocco, a Grandvaux… ma la cosa più bella era viaggiare con lui, solo per strade secondarie».
Quali sono gli insegnamenti di cui ha fatto più tesoro?
«Hugo Pratt mi ha trasformato la vita. La prima cosa che mi ha insegnato è stata quello di essere sempre autonomo. Il secondo consiglio fu quello di scrivermi anche le storie, mentre sul piano tecnico mi insegnò a lavorare su tre strisce, accorgimento che obbliga a non concedere niente all’estetica e lavorare solo in funzione della narrazione».
In che cosa risiede la grandezza di Hugo Pratt?
«Nell’essere stato totalmente quello che disegna.
Pratt non è mai andato in cerca del successo, a lui interessava solo raccontare le sue storie perché il racconto era davvero lui».
È l’unico per cui Pratt abbia scritto sceneggiature, «Tutto ricominciò con un’estate indiana» e «El
Gaucho». Che tipo di esperienza è stata?
«Per me è un motivo di grande orgoglio. Proprio perché per lui il lavoro era espressione di sé stessi, il fatto di condividerlo con un altro è stato un regalo immenso. Sia da parte sua, nella sce
neggiatura, che dalla mia, nel disegno, c’era un continuo mettersi a disposizione l’uno dell’altro».
Avevate progettato altri lavori assieme?
«C’era la seconda parte di El
Gaucho che avrebbe parlato della ricerca della Città dei Cesari, nella bassa Patagonia, dove il protagonista sarebbe diventato il gaucho del titolo. Un’altra storia avrebbe dovuto avere come protagonista un celta che, ai tempi dell’Impero, veniva deportato a Roma e obbligato a diventare gladiatore. Questo molto prima del film di Ridley Scott».
Immagino che ci sia stato un ultimo incontro tra voi, ha voglia di raccontarcelo?
«Era luglio. Mi arriva una telefonata, è Hugo: “Milo guarda che se non ci vediamo adesso non ci vedremo più”. Sono partito per Grandvaux. Mi aspettava sulla porta, magrissimo, spettrale. Era un uomo con le valigie in mano e lo sapeva. Per sdrammatizzare mi è uscito un “Caspita che linea che hai fatto!”. Ci siamo lasciati con la promessa che sarei tornato dopo la prima di un balletto su Federico Fellini per cui avevo fatto scene e costumi; il debutto era fissato la sera del 20 agosto. Proprio durante lo spettacolo mi è arrivata la telefonata di Vincenzo Mollica con la notizia: ero talmente scosso che non riuscii ad uscire per gli applausi finali. E pensare che il giorno dopo sarei andato da lui».
Come mai non ha continuato lei Corto Maltese?
«Me l’ha chiesto una volta, dopo un pranzo festoso, alla presenza di Patrizia Zanotti. Mi disse: “Un giorno farai tu Corto Maltese”. Nell’ultimo incontro però mi descrisse nel dettaglio come avrebbe sistemato le cose ma di Corto non fece parola. Mi è sempre restato il dubbio che aspettasse che glielo chiedessi io, magari voleva essere sicuro che ci tenessi a farlo. Io non mi gli dissi niente e lui fece lo stesso. Di sicuro non disegnerò mai Corto Maltese».