Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Il primo morto, i tamponi i sei mesi della pandemia
Il 21 febbraio la notte più lunga. Da Vo’ alle chiusure, il lockdown e la fase 2: così è cambiato il Veneto
VENEZIA Il 21 febbraio cadeva di venerdì. Il carnevale era agli sgoccioli e le notizie sul coronavirus finivano spesso in economia, il problema erano i magazzini delle imprese in attesa dei pezzi bloccati in Cina. Alle 11 di sera esce la notizia dei primi due casi accertati di contagio a Padova e della morte di Adriano Trevisan all’ospedale di Schiavonia. Sarà il primo morto veneto, il primo morto italiano, il primo morto dell’emisfero occidentale. Inizia così la notte più lunga del Veneto. In via Scrovegni, a Padova, si riunisce nottetempo la task force prevista dal piano di sanità pubblica. A presiedere c’è il governatore Luca Zaia: «Dopo quella telefonata ho pensato “Il virus è arrivato”». In una recente intervista, Zaia ha ricordato: «Quella sera abbiamo scritto una pagina di storia, io ho deciso di fare 3 cose, nessuna prevista dai protocolli in vigore: tamponi ai 3.500 abitanti di Vo’, chiusura immediata di Schiavonia e tende della protezione civile davanti agli ospedali». I tamponi a tappeto a Vo’ rivelano 88 positivi di cui 11 sintomatici e, concordano per una volta tutti, si è così evitata una bomba epidemiologica. Nelle ore e nei giorni successivi gli eventi precipitano: un caso a Mira, poi a Dolo, a Limena, a Treviso e in centro storico a Venezia. C’è da decidere se cancellare il martedì grasso ma la città in ginocchio dopo l’Acqua granda di novembre non ne vuol sapere. Il sindaco Luigi Brugnaro resiste fino all’ultimo ma alla fine decide Zaia: si chiude. Nei giorni in cui la Lombardia sprofonda in un abisso di contagi e morti, e in cui, progressivamente, in diretta Facebook il governo imbocca la via delle zone rosse e poi del lockdown totale, i veneti si aggrappano a un’altra diretta Facebook, quella trasmessa ogni giorno, per 140 giorni di fila, dalla war room della Regione. Ogni giorno, alle 12.30, con una puntualità elvetica, Zaia parla alla «nazione» (e risponde alle domande dei giornalisti). Alle sue spalle c’è quasi fin da subito Chiara che traduce le parole del governatore nella lingua dei segni. Via Paolucci, nel cuore della Cita, a Marghera, diventa il luogo in cui si mettono in incubatore i pulcini donati da un bimbo, in cui si mostrano centinaia di disegni dei più piccoli, in cui si sgranano ordinanze regio
nali come rosari. E allora c’è il limite dei 200 metri entro cui ci si può allontanare da casa, l’obbligo di mascherina e guanti più stretto che nel resto d’Italia, c’è l’esasperazione per quelle sei settimane in cui di mascherine non se ne trovavano, salvo i 13,5 milioni delle «mascherine Dumbo» stampate (e donate) da Grafica Veneta. In quei giorni che si confondono nel ricordo ci sono le macchine «macina tamponi» acquistate in modo rocambolesco (ma che fanno la differenza) e quell’asse fra governatori guidati dalla strana coppia Zaia-Bonaccini. Perché Roma va contenuta. Nel frattempo si comprano (altrettanto rocambolescamente) i respiratori che mancano, si modificano le bocchette d’ossigeno e si allestiscono in nosocomi dismessi i Covid Hospital, piano B per lo scenario peggiore. Il Qatar dona un ospedale da campo (mancano ancora letti e respiratori). In via Paolucci la concitazione di chi decide, fuori lo spaesamento al ralenti dei veneti reclusi, gli amori nati da balcone a balcone, le tombole condominiali «urlate» dal terrazzo. Con la primavera l’incubo (soprattutto per le prefetture) dei codici Ateco svanisce,il nuovo fronte sono «le riaperture», il Veneto scalpita e taglia il traguardo il 18 maggio, la «liberazione». Il resto è storia recente, le spiagge affollate, le discoteche aperte e poi chiuse, ora la battaglia sulle scuole con o senza mascherina (bocciata da Zaia), i bus pieni o dimezzati, l’incognita della seconda ondata e l’«artiglieria pesante» annunciata dalla Regione. Fin qui sono stati sei mesi vissuti pericolosamente.