Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Maltempo, anni di cantieri non bastano
Dal 2010 a oggi, si fanno sempre più frequenti gli eventi catastrofici, con danni ingenti a carico dei cittadini rassegnati. Ma i cantieri sono aperti, i lavori sono stati fatti. Il punto è che i soldi non bastano mai.
«L’esperienza è il miglior maestro. Peccato che il suo onorario sia così alto». È una celebre massima del filosofo scozzese Thomas Carlyle, che fatalmente rispunta ad ogni catastrofe. La si usa a conforto della tesi, maggioritaria quando ci si trova davanti alla devastazione, per cui non si è fatto abbastanza, non si è speso abbastanza, non si è agito abbastanza. Ma è davvero così? Oppure, per quanto si sia fatto, davanti all’ineluttabilità di certi eventi non resta che allargare le braccia?
Il governatore Luca Zaia lo disse anche nei giorni tragici dell’ultima Acqua Granda: «C’è un quadro con le gondole che navigano in piazza San Marco. L’ha fatto Vincenzo Chilone, nel 1825». Come a dire: è una tragedia ma non è stata la prima, e non sarà l’ultima . Una tesi non dissimile da quella dell’assessore alla Protezione civile di Verona Daniele Polato, che nelle stesse ore in cui Aldino Bondesan, geomorfologo dell’Università di Padova, ammoniva sull’urgenza dell’adeguamento della rete idrografica minore («Canali di scolo e fossi spesso sono abbandonati»), spiegava: «Ma qui a Verona la manutenzione è stata fatta, c’è un piano che coinvolge 60 mila tombini ed è partito proprio dalle vie finite sottacqua. Il punto è che per quanto gli scoli fossero puliti, la caduta di un metro e mezzo di grandine in pochi minuti, unito al fogliame caduto dagli alberi per via del vento, ha intasato tutto, allagando garage, negozi e scantinati».
Una soluzione ci sarebbe e l’ha detta lo stesso Polato: rifare da cima a fondo l’impianto fognario di Verona, risalente al
Dopoguerra: «Cinque anni di lavori per 100 milioni» è la sua stima. Un problema noto, che non riguarda solo Verona: nel centro storico di Venezia la rete fognaria, semplicemente, non esiste, i «gatoli» delle case scaricano direttamente in canale. Si dirà: ma Venezia è Venezia. Vero, ma lo stesso accade a Treviso, dove la rete fognaria non collega tutte le case. Una situazione che fu definita «inaccettabile» dalla Commissione europea e stiamo parlando, dati del ministero dell’Economia, del Comune più ricco del Veneto.
Se occorrono 100 milioni per la sola Verona, facile immaginare quanti soldi servano per tutti gli altri e così si torna al nocciolo della questione che non sono le buone intenzioni, che ci sono, ma i soldi, che non ci sono. Il Mose, dopo 17 anni, 5 miliardi e una mastodontica inchiesta giudiziaria, si avvia a conclusione e dovrebbe salvare Venezia. Ma per l’idrovia, indicata da tutti i luminari come la soluzione definitiva ai problemi idrogeologici del Veneto Centrale, non resta che sperare nel Recovery Fund (costa 512 milioni; l’alluvione del 2010 provocò danni per 426). È chiaro, dunque, che non si può fare tutto e occorre procedere per priorità. Chi le stabilisce? La Regione ha fatto la sua parte con l’ormai famoso Piano D’Alpaos da 3,2 miliardi. Facile intuire la distanza che ci separa dal suo completamento. La Regione, di anno in anno, con i soldi di cui dispone procede con i cantieri: Timonchio, Colombaretta, Monticano. Opere che stanno funzionando ma sono 3 su un elenco di 23 e stiamo parlando dei soli bacini di laminazione. In totale, a questa voce, il piano prevede lavori per 582 milioni: ne sono stati completati per 56 milioni e altri sono finanziati per 345 milioni. Con la penuria delle casse pubbliche, non è poco. Ma intanto dall’alluvione sono passati dieci anni.
Le grandi opere, peraltro, non bastano e a dirlo è lo stesso Luigi D’Alpaos, professore emerito del Dipartimento di idraulica dell’Università di Padova, che insiste sull’importanza della rete minore: «Stiamo pagando le conseguenze dell’urbanizzazione scriteriata fatta nel passato, che non ha tenuto conto di questo aspetto. E anche negli anni più recenti non c’è stata sufficiente attenzione». D’accordo Paolo Spagna, membro del Consiglio nazionale dei geologi, anche se «rispettosamente» se la prende proprio con D’Alpaos per lo scarso coinvolgimento nella stesura del piano: «I bacini di laminazione servono ma sono interventi per la gestione dell’emergenza, non di prevenzione. Spostano il problema da una parte all’altra: che fine fanno i milioni di metri cubi concentrati in quelle vasche? Dove defluiscono? Il territorio ha bisogno di sentinelle e di continue opere di salvaguardia. Come può la Regione stanziare poche centinaia di migliaia di euro per 4 mila frane attive sul nostro territorio?». Il presidente della Cia, Gianmichele Passarini dà la disponibilità dei suoi associati ad allagare (dietro compenso economico) i campi per salvare i centri abitati e si unisce al coro di chi chiede un piano invasi, interventi di rimboschimento, stop alla cementificazione.
Di nuovo colpa della politica, dunque. Che però non ci sta. Detto che gli ambientalisti qui sono impalpabili (inutile guardare ai Verdi della Germania, basti pensare che alle prossime Regionali si presenteranno divisi in tre liste diverse con tre candidati differenti) e che anche il movimento dei Fridays for future pare essere passato senza aver lasciato segni, tocca alla Lega, se non altro perché governa, provare a dare una risposta a chi, come l’Ispra, fa notare che il Veneto continua a galoppare verso la cementificazione più selvaggia, secondo solo alla Lombardia e tra le regioni peggiori d’Europa: «Le norme per il contenimento del suolo sono state approvate e sono molto restrittive - ha spiegato il presidente della commissione Urbanistica della Regione Francesco Calzavara - ma esplicheranno i loro effetti nel lungo periodo, mentre ora vediamo andare a dama progetti frutto della programmazione degli anni passati. Mica potevamo fare tabula rasa degli strumenti urbanistici vigenti dall’oggi al domani». Non è un caso che l’orizzonte sia il 2050.