Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Il Mediterraneo e Venezia, la vita in poesia di Sandro Boato
Al pari del ritmo sinuoso di quel remo che lento e cadenzato «tocia in acqua/ ritocia, tocia ancora», la poesia di Sandro Boato (Venezia, 1938 – Trento, 2019) sembra nutrirsi di una musicalità che le dà luce ed energia dall’interno. Quasi trecento pagine di versi in cui l’infanzia e la giovinezza trascorse dall’autore in simbiosi con Venezia, assorbendone suoni, odori, paesaggio, diventano il «centro di gravità permanente» della sua ispirazione. Anche quando l’argomento al cuore della riflessione è molto diverso.
Con un omaggio a Venezia,
si apre infatti Là dove core el
me pensier in fuga, il volume di recente pubblicato per i tipi di Morcelliana editore, alla cui predisposizione lo stesso Boato ha lavorato insieme alla moglie Odilia negli ultimi mesi di vita. Le immagini sono del figlio Matteo.
«Sandro Boato si è dedicato a molte cose, e le ha prese tutte sul serio: del resto, erano legate, la cura per la vita comune nella città (la politica, alla lettera), il rispetto e l’amore per l’ambiente naturale, una premura religiosa e realista per la pace — scrive nella prefazione Adriano Sofri —. Tuttavia l’ho sempre più immaginato, custode e custodito insieme, in due compagnie fatali: quella della sua famiglia e quella della poesia. Non direi la frase che pure in altri può importare, “ha vissuto per la famiglia”, o “ha vissuto per la poesia”: piuttosto, ha vissuto della famiglia e della poesia, e ne è stato ricambiato com’è privilegio di pochi». «Alla poesia Sandro Boato ha dedicato più di cinquant’anni di impegno», sottolinea anche Giuseppe Colangelo nell’introduzione al libro, ricostruendo quello che definisce «un lungo iter poetico nascosto», che si alimenta della profonda conoscenza, anche come traduttore, di poeti euro-occidentali e americani del Novecento.
È il 1963 quando alcune sue liriche in veneziano, inviate al concorso triveneto «Guido Marta», ottengono il secondo premio ex aequo. Un avvio promettente, seguito da due elegie in italiano, la prima per la morte di papa Giovanni XXIII nel 1963 e l’altra per l’assassinio di Paolo Rossi, studente antifascista, a Roma nel 1966. Trasferitosi in Trentino, fino a metà anni Ottanta Boato lascia riposare la vena poetica, riversando le sue energie nel lavoro di architetto urbanista, fino al successivo coinvolgimento «nelle lotte socioculturali del periodo che va dal 1967 al 1978 e infine a un impegno come ecologista nei consigli regionale e provinciale», aggiunge Colangelo.
Ad aprire Là dove core el me pensier in fuga è la sezione «De piera e aqua», dedicata a Venezia, nella cui prima lirica, «El venessián», Boato stabilisce una sorta di «corrispondenza d’amorosi sensi» tra il suo essere e la città. Si dichiara, infatti «dal mar più quéto (…) vegnudo fora/ coi colori smorsài/de la laguna», con un atto d’amore senza limiti anche per la lingua nativa.
Sfilano poi presenze inseparabili da Venezia: la barca, la laguna, il «Campielo», la Fenice, El Redentór, Rialto, San Marco, la Salute, ma anche lo sguardo attento sulla multiculturalità in «Venezia nasse da le migrassión» o in «Dialogo delle lingue».
La successiva raccolta «L’urlo e il silenzio» dà voce alla parola civile ed accende i riflettori sul «lungo-lungo (…) serpente/di barconi allo sbando/ tra Europa ed Africa» per continuare con poesie come «Somalia», «Guerra chirurgica» ma anche «Fuga da Stava».
In quelle raggruppate come «Metamorfosi» è invece la forza, ma anche la potenza evocatrice della natura a farsi strada, in un continuo scambio osmotico con l’interiorità del poeta: «Senza la luce si aspetta/ la pioggia in nuvola sfarsi/ in questo lungo momento/ è come liberarsi».
Tutto da vivere anche il giro per le «Città d’Italia», da Padova a Verona, fino a Matera e oltre, senza mai scordare però il sapore quasi mitico del «pèrdarse» a Venezia a ferragosto. Lo sguardo si allunga a scoprire altri luoghi del Mediterraneo, come Barcellona, Siviglia, la Provenza, Delos, Santorini, ma anche Jerusalem.
Giunge poi dolorosa la «note fonda» della malattia, espressa da titoli come «Nella paura», «Dopamina», o «Cossa xe sto Parkìnson», versi di una lucidità, di un coraggio, persino di un’ironia disarmanti: «Megio rìdar de se stessi/ se se vol vìvar ancora/liberando la parola», scrive.
Versi che anche quando devono fare i conti con la sofferenza continuano a risuonare come un inno alla vita. Nella consapevolezza che «la morte fa parte della vita. Non si può esorcizzarla, né si può ridurla ad avvenimento marginale. Essa sta dentro l’alveo di un flusso naturale. Di fronte a lei il poeta deve far sentire la sua parola», come osserva ancora Colangelo.
«Là dove core el me pensier in fuga»: odori e luoghi della Laguna