Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
LAVORO, L’EXPORT NON BASTA
«Esportare significa portare i nostri prodotti all’estero e lasciare il lavoro qui in Italia». Questa affermazione del Ministro degli esteri Di Maio a Padova mercoledì scorso forse richiede alcune puntualizzazioni come ha suggerito a caldo Massimo Finco, Vicepresidente Vicario di Assindustria Veneto Centro.
Una vasta letteratura scientifica ha rilevato che per salvare e far crescere i posti di lavoro in patria, soprattutto quelli di qualità, l’export non basta e sono necessari anche investimenti diretti esteri. Vediamo di capire perché.
Le performance delle aziende italiane, e di quelle del Nordest in particolare, in termini di export nel decennio successivo alla crisi del 2008 sono state eccezionali e hanno contribuito in maniera decisiva alla tenuta dell’occupazione e del Pil. Hanno sofferto però di un rischioso eccesso di specializzazione settoriale e geografica, restando così esposte alla volatilità delle congiunture.
Un esempio per tutti, il settore della componentistica «automotive» destinata alle aziende tedesche che ha enormi difficoltà ad assorbire la caduta della domanda d’Oltralpe. Un altro elemento di perturbazione è stato quello relativo ai rallentamenti del commercio mondiale, iniziati ben prima della pandemia, anche a causa di politiche doganali volte a proteggere le produzioni nazionali.
Ovvero la così detta guerra dei dazi innescata da Trump, con le reazioni a catena che sta provocando. Hanno sofferto meno le aziende che, in un percorso di crescita dimensionale, si sono messe nelle condizioni di diversificare le produzioni tra più settori, più siti produttivi e più mercati di sbocco diminuendo il grado di dipendenza da un solo fronte.
Ne discende che per sostenere queste aziende non sono sufficienti le politiche tradizionali di promozione dell’export, che comunque sono utili e vanno semmai affinate; sono necessarie politiche di rafforzamento dimensionale e di adeguamento del modello di business. Tra queste non rientrano le semplici esortazioni a produrre (o tornare a produrre) in patria, il così detto «reshoring».
Questo può valere per le forme opportunistiche di delocalizzazione trainate da differenziali dei costi del lavoro e non sorrette da vere e proprie strategie di internazionalizzazione. Non rientrano
neanche i disincentivi a produrre all’estero, scelta che invece potrebbe essere funzionale a un modello di business davvero internazionale.
La chiave di volta è l’ibridazione tra manifattura e servizi. Da tempo ormai, soprattutto nel «business to business», alla competizione di prezzo si è aggiunta e talvolta sostituita la competizione sul servizio. Il che significa che il valore del manufatto è determinato dal servizio che il fornitore riesce a dare in termini di coprogettazione, adeguamento alle specificità locali, logistica, manutenzione, tempi di consegna e, in una parola, di prossimità al cliente.
L’esperienza del lockdown ha favorito la diffusione delle interazioni digitali che hanno accorciato i tempi e le distanze e aumentato le possibilità di interventi da remoto grazie all’intelligenza artificiale, la realtà aumentata, il telecontrollo e così via. Non hanno ancora intaccato il valore della prossimità al cliente. Una volta ridimensionato il gran clamore creato attorno a questi strumenti, si realizzerà che il percorso per una loro piena valorizzazione è lungo e irto di difficoltà e che la tecnologia ha comunque bisogno di interazioni sociali. Si realizzerà che le catene globali si saranno a loro volta accorciate ma non annullate come ipotizzano i profeti della deglobalizzazione. Si realizzerà che gli investimenti diretti esteri restano una componente fondamentale della competizione globale.
Queste considerazioni sono presto verificate osservando che le imprese del Nordest che meglio hanno retto l’impatto della pandemia recuperando rapidamente buona parte del fatturato, e talvolta aumentandolo, sono quelle: con una multilocalizzazione dei siti produttivi che ha consentito loro di bypassare i vincoli doganali e di dislocare la produzione sfruttando gli sfasamenti temporali della diffusione del virus; con una grande attenzione al servizio al cliente; con una dimensione idonea per realizzare tutto questo.
Ben vengano gli incentivi all’export ma favoriamo anche il rafforzamento internazionale delle nostre imprese.