Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
CONTRATTI UN NUOVO MODELLO
Ben tre lavoratori dipendenti su quattro hanno il contratto nazionale scaduto. È noto che Carlo Bonomi, neopresidente di Confindustria, ha chiesto una moratoria. Gli effetti della pandemia si fanno sentire, indubbiamente, ma la difficoltà a rinnovare i contratti ha ragioni diverse. Una è certo dovuta all’usura del modello centralizzato di contrattazione, che vorrebbe fare da ombrello a tutto e, invece, non riesce più a ricomporre un mondo del lavoro frammentato. Appare caratterizzato da diversi processi, che sembrano ibridare forme antiche con modalità avveniristiche, da quello che era il lavoro a domicilio allo smart working, i «remotizzati»; dalla sempre più estesa categoria degli «essenziali», lavoratori che sono impegnati nel produrre o consegnare merci e beni di prima necessità con tutele spesso ridotte, nel vortice dell’e-commerce, ma anche i lavoratori della cura e dell’assistenza; i «sopravviventi», vittime spesso involontarie del lavoro sommerso da sopravvivenza; e, seppur minoritari, i «competenti» neoformati. Contratti, tutele, carriere previdenziali, welfare benefit con siderali differenze. Ma il vero motivo, sottotraccia, per cui la contrattazione centralizzata non funziona più è che maschera una redistribuzione fiscale che non si può più reggere: nel 2018 il gettito complessivo Irpef (245 miliardi), è stato redistribuito per 174 miliardi (il 71%) in spesa pubblica sanitaria, assistenziale, scolastica verso territori e cittadini che non hanno contribuito a quel gettito.
È come dire che il cuneo fiscale dei lavoratori dipendenti, prevalentemente del Nord, sostiene il 71% del welfare complessivo. Per questo quando un lavoratore riceve 100 euro in busta paga, all’azienda con tutti gli oneri riflessi ne costa dai 230 ai 280. E le pezze a un sistema così iniquo, come la defiscalizzazione degli straordinari, che senso può avere in epoca di smart working che rivoluzione il concetto stesso di «orario» di lavoro? La contrattazione centralizzata è stata ingessata da una giungla legislativa ormai inestricabile.
Un grande giurista come Gino Giugni, rievocato di questi tempi perché padre di quello Statuto dei lavoratori che ha appena spento cinquanta candeline, ha enunciato questa «regola aurea»: nei periodi di grandi cambiamenti e intense trasformazioni è molto meglio praticare la contrattazione tra datori di lavoro e sindacati piuttosto che attendere che le leggi statali dall’alto risolvano i problemi. La contrattazione è più flessibile, circoscrive con più chiarezza i problemi da affrontare, induce a negoziare le intese per risolverli e, soprattutto, favorisce la costruzione di affidamenti reciproci, la fiducia di condividere il governo di un processo difficile. La fiducia non si crea per legge.
Si è capito che qui stiamo parlando di contrattazione territoriale, di settore e aziendale. A fase eccezionale, risposte eccezionali. Come si governano le crisi improvvise da crollo di domanda su mercati investiti da crisi sanitaria? È evidente che si impongono schemi innovativi e coraggiosi di accordi di solidarietà per condividere i sacrifici imposti da una turbolenza senza precedenti.
Un secondo problema è parificare le tutele sanitarie tra chi gode della sicurezza nel proprio ambiente di lavoro o da remoto e quelli che lavorano esposti in strada, obbligati alle relazioni e agli scambi continui: essenziali le funzioni, doverose le tutele! Un ambito di contrattazione è quello della formazione continua e della sua estensione anche come ammortizzatore sociale attivo, che sgrava l’azienda di costi, ma mantiene il lavoratore agganciato ai cambiamenti e alle competenze del nuovo ciclo. Alla vigilia dell’anno scolastico, che si annuncia con l’anomala eccezionalità che sappiamo, per garantire a tutti i lavoratori e, soprattutto, lavoratrici gli strumenti di conciliazione per gestire al meglio i figli dovrebbe portare al negoziato anche il mondo della scuola e gli enti locali.
Infine, servono accordi, intese territoriali per potenziare le politiche del lavoro in modo da spostare velocemente gli inoccupati e gli esuberi da un settore che va in crisi strutturale a un altro che si mostra promettente. La Regione ha già sperimentato, con la crisi del 2009–’13, strumenti e risorse per le politiche del lavoro costruendo una filiera decisionale dimostratasi efficace ogni volta che ha attivato sussidiarietà: con agenzie del lavoro, centri di formazione, rappresentanze bilaterali protagoniste. Un nuovo ciclo va affrontato con lo stesso modello, ma sui nuovi temi. Va costantemente alimentato da accordi territoriali che non possono che derivare da uno slancio delle parti sociali venete.