Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Viaallagigafactorydellebatterie «Nel2025volumidecuplicati»
Accumulatori al litio, è partita la prima linea produttiva della padovana Energy Contribuenti veneti e pressione fiscale, i conti non tornano: «Quella reale è del 47,4%»
«Abbiamo mantenuto la parola, la prima linea produttiva della gigafactory degli accumulatori al litio è partita pochi giorni fa e nel 2025 il tutto sarà moltiplicato per 10». Lo assicura Davide Tinazzi, fondatore e amministratore delegato della Energy di Piove di Sacco (Padova), pronosticando per la prossima primavera l’entrata a regime e il taglio del nastro dell’impianto, ospitato all’interno dello stabilimento originario. Tutto ciò mentre sono già avviati i lavori per la costruzione, accanto alla sede principale, di un nuovo capannone da 11.400 metri quadrati, dove opererà a pieno ritmo Pylon Life Eu, joint venture tra Energy (30%) e il colosso cinese Pylon Technologies, a oggi il più importante costruttore di batterie al litio-ferro-fosfato per l’accumulo di energia da fonti rinnovabili.
È un progetto che può far leva su un co-finanziamento del 16% rispetto ai 43 milioni complessivi, cioè 7,15 milioni, dal budget che il Pnrr destina alla filiera strategica «Rinnovabili e batterie».
«Man mano che si chiudono gli assorbimenti di energia da fonti fossili a favore delle risorse rinnovabili – spiega Tinazzi – diventa pressante l’esigenza dei sistemi di accumulo, un fattore abilitante sia in ambito di autoconsumo sia in un’ottica di scambio di energia fra più utenti e con la rete».
Se fino a oggi la dimensione dell’impianto fotovoltaico domestico è stato prevalente nell’insieme del business di Energy, rappresentato da oltre 55 mila impianti venduti e installati in Italia, a partire da quest’anno si prevede un’importante crescita nel segmento dell’accumulo in ambito industriale, commerciale e delle utility. Tutto ciò in uno scenario che vedrà, in un futuro non troppo lontano, il mondo della finanza scambiarsi non solo valori monetari ma «pacchetti» di energia in una logica di blockchain. Questo spiega anche il fatto che, dallo scorso settembre, le azioni ordinarie di Energy, quotate sul mercato Euronext Growth di Borsa Italiana, siano negoziate anche a Stoccarda, Monaco e Francoforte. «Molti Family Office tedeschi investono nelle energie rinnovabili ed è conveniente essere loro il più vicino possibile. In secondo luogo, il sistema Germania-Austria-Svizzera è un mercato estero di riferimento prioritario e costruire una base di azionariato internazionale in quell’area è in linea con gli obiettivi strategici di crescita del nostro business».
Un’idea di come si stia muovendo il settore la offre una recente ricognizione dell’agenzia BloombergNef. Alla fine del 2022, in tutto il mondo risultavano installate batterie capaci di erogare 36 GWh (la proiezione al 2030 è di 722 Gwh) e lo scorso anno si ritiene sia stata aggiunta in contesti residenziali un’altra quota compresa tra i 15 e i 34 Gwh, per l’88% in Italia, Germania, Giappone, Usa e Australia. Sia in Germania sia in Italia, inoltre, più del 70% dei nuovi impianti a energia solare residenziali è dotato di batterie per stoccare l’energia generata durante il giorno.
Insomma, si tratta di un giro d’affari potenzialmente enorme che, però, sotto il punto di vista dei ricavi, alla chiusura del 2023 segnerà per Energy una flessione rispetto ai 126,5 milioni registrati l’anno prima. Al 30 giugno, infatti, il fatturato ha sfiorato appena i 40 milioni e non ci sono motivi di ritenere che il secondo semestre possa aver recuperato il gap con il 2022.
Cosa è successo? « L’aumento dei tassi di interesse e l’inflazione mantenuta alta hanno modificato, in tutta Europa, la propensione all’investimento sui sistemi fotovoltaici a uso prevalentemente domestico o delle piccole aziende. Con un potere d’acquisto ridotto – prosegue il fondatore della società padovana – e bollette elettriche non più così “dolorose” come all’inizio dello scorso anno, l’impulso all’acquisto di sistemi di autoproduzione, benché si ripaghino in 7 anni, si è affievolito. In ogni caso, attrezzandoci su impianti di maggiori dimensioni, stiamo continuando a operare da leader in questo settore».
Il cittadino contribuente veneto, in media, versa meno di Irpef rispetto a lombardi, laziali o altoatesini (soprattutto in ragione dei livelli contributivi più bassi) ma è gravato da una pressione fiscale reale del 47,4%, «quasi 5 punti in più rispetto al dato ufficiale, che nel 2023 si è attestato al 42,5%».
Questo 42,5% è calcolato dal Mef (ministero Economia e Finanze) sulla base delle disposizioni metodologiche previste dall’Eurostat e perciò la Cgia di Mestre (associazione artigiani e piccole imprese) non lo contesta ma ne mette in evidenza la distanza dalla realtà delle cose. La causa della discrepanza tra pressione fiscale «reale» e «ufficiale» starebbe nell’impatto della cosiddetta economia «non osservata», cioè del lavoro irregolare e illegale che peraltro, in Veneto, avrebbe «un’incidenza percentuale sul valore aggiunto regionale molto contenuta, pari al 10%».
Quindi i veneti sono discretamente fedeli al fisco ma vengono ricambiati con una tassazione reale troppo elevata secondo la fotografia scattata dalla Cgia, che spiega così il meccanismo: «Il Pil comprende anche gli effetti dell’economia non osservata, il cui contributo alle casse dello Stato per definizione è nullo. Pertanto, alla luce del fatto che la pressione fiscale è data dal rapporto tra le entrate fiscali e il Pil, se da quest’ultimo storniamo la componente riconducibile al sommerso, il peso del fisco in capo ai contribuenti onesti sale inevitabilmente».
L’ufficio studi Cgia non approva, invece, la tesi del Mef sull’evasione dei lavoratori autonomi, che verserebbero solo un terzo dell’Irpef dovuta. Questo non può esser vero, secondo il centro studi mestrino, per varie ragioni. Una è che gli autonomi veneti che utilizzano la contabilità semplificata (artigiani e commercianti) nel 2021 hanno dichiarato una media di 33 mila e 300 euro lordi ciascuno. Oltre il 70% di queste partite Iva è composta dal solo titolare. Se evadessero veramente più del 67% dell’Irpef, dovrebbero guadagnare - calcola la Cgia - qualcosa come 73 mila euro l’anno, un dato medio fuori scala. Inoltre, la stima sull’evasione non includerebbe gli autonomi che si avvalgono del regime dei «minimi», quindi gran parte dell’agricoltura, dei professionisti e il settore domestico, che non pagano l’Irap.
La diminuzione generale della pressione fiscale, che nel 2023 è stata di 0,2 punti, alla resa dei conti non sarebbe percepibile a causa dell’aumento delle bollette e dei costi dei servizi. Stando all’analisi della Cgia, infine, l’Irpef qui è più leggera che altrove perché le retribuzioni in Veneto sarebbero in media più basse. Secondo i dati 2021, i contribuenti veneti sono 3 milioni e 665 mila, quindi in media ognuno versa 4.292 euro di Irpef all’anno. La media italiana - 4.121 euro a contribuente - non è lontana. ( t.m.)
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