Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Morbin, i totemquotidiani radicali e anticonformisti
Un
omaggio radicale, com’è radicale la sua arte. Nell’antibagno di Palazzetto Tito a Venezia ecco un aspirapolvere, che sembra essere stato abbandonato dagli addetti alle pulizie. L’opera di Giovanni Morbin s’intitola «…after Szeemann» e mostra un classico Folletto verde: è stato impiegato nell’ex archivio del celebre curatore Harald Szeemann (già direttore delle edizioni 1999 e 2001 della Biennale) per rimuovere la polvere rimasta nello spazio dopo la sua morte. Il lavoro «allude all’ineluttabilità del destino cui tutti siamo accomunati, comprese le persone che hanno avuto la capacità di aprire nuove rotte nel proprio campo d’indagine», spiega l’artista vicentino. È ad alto tasso di Concettuale la personale allestita fino all’11 febbraio nella sede della Fondazione Bevilacqua La Masa dal titolo «Campo di ricerca», a cura di Daniele Capra, che presenta una trentina di opere storiche di Morbin (Valdagno, 1956) insieme a nuovi lavori sitespecific. Come il neon col nome dell’artista collocato sulla facciata del Palazzetto, che non sembra funzionare in maniera corretta. Presenta una «M» volutamente tremolante che non si accende mai in maniera definitiva: il cognome dell’autore diventa così «Orbin», che nel dialetto locale significa «quasi cieco». È questa la cifra fuori dall’ordinario di Morbin: «Sin dagli anni della formazione - chiosa il curatore - il suo è un approccio libero, anticonformista e anarchico. Frequenta i corsi di Emilio Vedova all’Accademia di Belle Arti di Venezia, ma è l’unico studente che in atelier non dipinge». Da Materia cedevole al tatto, ovvero radiografie che registrano la modificazione del corpo dell’artista in seguito a un incidente, all’Autoritratto creato impiegando il sangue come pigmento o al calco della mano che si fa scultura nel materiale che si usa per fare protesi. La serie di sei Bianchi è costituita da dipinti atipici realizzati strappando porzioni di intonaco dai muri. Idolo è un totem che ricorda ambiguamente sia un corpo femminile giunonico che un feticcio dal sapore primitivo. L’opera allude all’idea di donna africana dalla femminilità dirompente, oggetto del desiderio di tanti uomini che, nel periodo coloniale, erano in cerca di avventure esotiche. Nella stessa sala EU, scultura in plexiglas che raccoglie fotografie scattate tra gli anni ‘20 e ‘60 di donne africane vestite secondo le consuetudini tribali (spesso seminude), che circolavano abitualmente in Europa come materiale erotico. «L’opera - rimarca Morbin - mostra un lato della civiltà europea imbarazzante e in parte non ancora risolto».