Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Le ampolle del Po la devolution e le urne Trent’anni di tormenti sulla via della riforma
Dalla Lega di Bossi ai referendum, la parabola politica
VENEZIA «Signora, il tricolore lo butti al cesso!» e giù applausi dalla folla. Quanto ci sembrano lontani quei tempi: era il 1997, si riempivano ampolle sul Monviso, si urlava la secessione della Padania in Riva degli Schiavoni e Umberto Bossi se la prendeva con Lucia Massarotto, che lo sfidava agitando la bandiera dell’Italia dal suo balcone. È una lunga parabola quella che ha attraversato il partito protagonista sulla scena, la Lega, e la politica tutta. Se oggi si vota in Parlamento sull’autonomia, che i contrarissimi chiamano secessione dei ricchi, c’è stata un’epoca in cui la secessione, quella vera, era un programma politico. E non c’è bisogno di ricordare che le spinte centrifughe, l’insofferenza verso Roma e il bisogno di un Veneto più libero dallo Stato centralista datano perfino dalla fine degli anni 70, dagli albori della Liga di Franco Rocchetta.
Il percorso è stato tormentato, ondivago, fatto di tentativi falliti e di pasticci ben riusciti. Oggi la parola è appunto «autonomia», convintamente appoggiata dal 98% dei veneti partecipanti al referendum regionale voluto da Luca Zaia del 2017 (e pochi ricordano che in quel giorno lo stesso suffragio lo praticò la Lombardia), ma c’è stato un tempo in cui si discuteva fino allo sfinimento di «federalismo». Il termine iniziò a farsi largo nei primi anni Novanta con l’ascesa elettorale, a tratti irresistibile da queste parti, della Lega Nord. Si iniziò a proporre un’Italia articolata in tre macro-regioni, l’intellettuale di riferimento era il professor Gianfranco Miglio. Ma il tutto fu sommerso nel giro di qualche anno - era appunto il ‘97, quello del raduno in Riva degli Schiavoni a Venezia - dalla svolta indipendentista voluta da Umberto Bossi in seguito alla rottura del patto di governo con Silvio Berlusconi e Alleanza Nazionale.
Le ampolle del Po portarono al nulla cosmico, ma siccova
me la pressione dalla parte economicamente più forte del Paese era una realtà oltre il folclore, e c’erano in gioco voti ed elezioni, successe che la prima svolta «federalista» sulla Costituzione finì per volerla, e votarla a maggioranza, il centrosinistra al governo. Era il 2001, si adottava la riforma del Titolo V: formula oscura ai più, ma che in sostanza significava il rafforzamento delle autonomie regionali (e di quelle locali) fissato sulla Carta. Quella riforma, mix di buone intenzioni e calcoli elettorali (il centrosinistra la votò in fretta anche nel tentativo di arginare la Lega nordista) fu tacciata a lungo di essere un pastrocchio senza capo né coda, fonte continua di conflitti di attribuzione davanti alla Consulta. Tant’è che Matteo Renzi, ben 15 anni dopo, tentò di regolarla in senso opposto: la sua riforma costituzionale prevedeva una sorta di clausola di supremazia a favore del governo centrale. Respinta anche quella, in ossequio alla solida tradizione che vuole i tentativi di riordino dello Stato bocciati senza pietà ai referendum nazionali.
Andò allo stesso modo in precedenza, nel 2005, e quella volta toccava al governo di centrodestra, con la Lega azionista di peso: era il turno della «devolution», parola anglosassone che intendeva evocare assetti federali stile Regno Unito. Una riforma costituzionale robusta, che conferiva alle Regioni la potestà legislati(in via esclusiva) su materie a forte impatto territoriale come l’organizzazione scolastica, la polizia locale, l’amministrazione della Sanità. Risultato: bocciatura al referendum nazionale confermativo del 2006.
Da allora, quindi, abbiamo campato con la riforma del 2001 appesa lì, in un limbo con poche attuazioni pratiche. Ma è proprio grazie a questa(o per colpa, dipende dai punti di vista) se poi siamo magicamente passati dai vagheggiamenti al voto in Senato di ieri. Il nuovo Titolo V ha reso possibili forme di autonomia differenziata negoziate direttamente da ciascuna Regione con il governo, senza bisogno di metter mano a complicate modifiche del testo costituzionale. Ed ecco perché Zaia ha potuto intestarsi la battaglia del referendum regionale consultivo del 2017 e aprire così la strada. In seguito i molti tentativi sono sembrati, ancora, restare nel mondo della chiacchiera e dei giri istituzionali a vuoto. Parliamo delle trattative con il governo Gentiloni (2016-2018) e il sottosegretario delegato, il bellunese Gianclaudio Bressa; del Conte 1 con la vicentina Erika Stefani, ministro per gli Affari regionali, impegnata invano a farsi approvare una legge; e poi ancora il Conte 2, con Francesco Boccia al posto della Stefani, tiepido prosecutore del tentativo; infine la breve stagione di Mario Draghi premier, con i tavoli condotti da Mariastella Gelmini. Tutto inutile, prima della svolta di oggi, segnata da un paradosso: l’autonomia si fa legge, spinta da un ex secessionista (Matteo Salvini) che oggi tiene tanto al ponte sullo Stretto di Messina e approvata con il benestare del partito più nazionalista che c’era, quello di Giorgia Meloni.