Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Sebastiano Carta, l’Armata rossa e la fuga per avere salva la vita
Questa è una storia che sfugge alle celebrazioni e verosimilmente non è nemmeno l’unica. Con la «Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli alpini» del 26 gennaio ha in comune solo il contesto storico, la Campagna di Russia e la successiva ritirata. E, sfuggendo a qualsiasi retorica, a qualsiasi epopea, forse non è nemmeno un caso che la storia di Sebastiano Carta sia raccontata agli inizi di febbraio, grazie a una proposta dell’associazione IdeAzione. All’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale Carta è nome noto in città, i Carta costruiscono strade, e Sebastiano, classe 1914, lavora in azienda. Fino alla guerra: ufficiale degli alpini, battaglione Gemona, Divisione Julia. La storia è telegraficamente breve: arruolato, Campagna di Grecia, Campagna di Russia, ritorno. E telegraficamente breve, per moltissimi anni, lo è stata anche per i suoi familiari. Perché di ciò che è accaduto in Russia dal 1941 al 1943 Sebastiano, che quando suonava la sveglia si alzava di soprassalto cercando di toglierle la spoletta come fosse una bomba a mano, non voleva parlare. Qualcosa in più i familiari lo scoprirono leggendo «Nikolajewka: c’ero anch’io» di Giulio Bedeschi. Nelle testimonianze non c’è il racconto diretto di Carta ma quello di Roberto Marchioro di Bassano. I due furono fatti prigionieri dall’Armata rossa. Riuscirono a fuggire in mutande; i sovietici non si presero la briga di inseguirli perché pensavano che il freddo avrebbe ucciso al posto loro. I due però si salvarono. Sebastiano fu decorato. Impressionante il numero di sofferenze della ritirata, la fame. Il figlio Leopoldo racconta che negli anni successivi, a Vicenza, il padre terminava i pasti con un « anca oncò ghemo magnà », anche per oggi abbiamo mangiato. Sebastiano morì nel 1997.
A Carta è stato dedicato l’evento «La ritirata sul Don», introdotto dal giornalista del Corriere del Veneto Federico Murzio, che ha fornito le coordinate storico temporali, e proseguito con la pièce teatrale di Alberto Ballardin. La chiave di lettura non è stata la condanna della guerra come fatto umano in sé ma un viaggio nel silenzio dei sopravvissuti fatto di incubi, sofferenze e paure come elaborazione di un lutto condiviso e collettivo. Una storia comprensibile nei due confini che sono passepartout alla Campagna di Russia: l’appoggio di Benito Mussolini all’alleato Adolf Hitler da un lato, e la lettera con cui l’allora segretario del Pci Palmiro Togliatti in riferimento ai prigionieri italiani in Russia scrisse che «se un buon numero morirà, in conseguenza delle dure condizioni, non ci trovo assolutamente niente da dire». Dei 70 mila prigionieri italiani, tornarono in 10 mila.