Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

Il nostromale quotidiano

- M.N.M. Massimiano Bucchi Roberta Polese

Il caso limite di Treviso, dove la quasi totalità dei migranti arrivanti in provincia è ospite dei centri gestiti dalla prefettura, ossia le caserme

neto— e infatti una cooperativ­a sociale su tre ha rinunciato. Io stesso lo sconsiglio: è un lavoro difficile, comporta enormi responsabi­lità, non è accettato dalla cittadinan­za e implica un rischio economico notevole: non ci sono margini di guadagno, i costi aumentano e non si trovano alloggi in cui sistemare chi arriva». In effetti si è passati dai 34 euro a migrante al giorno passati dieci anni fa dal Viminale, più i 2,5 euro di Pocket money, ai 19 euro al giorno conseguent­i alla legge Salvini e ora a 27,5. le emergenza abitativa, non riescono a reperire una sistemazio­ne, ma il turn over è comunque continuo».

Il vostro progetto è finanziato dallo Stato?

«Sì, con un milione di euro l’anno, quindi finora abbiamo ricevuto 3 milioni. Ma il decreto sui finanziame­nti è scaduto il 31 dicembre 2023, termine entro il quale il Comune di Vicenza ha confermato di proseguire nell’esperienza. Però il nuovo decreto con i relativi nuovi stanziamen­ti non è ancora stato emanato, stiamo andando avanti a proroghe: la prima è scaduta il 29 febbraio scorso, la seconda terminerà il 30 aprile prossimo».

E nel frattempo continuano ad arrivare i fondi?

«Sì, abbiamo anche prorogato il contratto alla cooperativ­a Il Sestante di Padova, che fornisce i servizi citati, infatti mai interrotti. Ma resta la spada

«Significa dover tagliare i servizi di insegnamen­to della lingua italiana, di assistenza legale e sociale — sottolinea Trabuio — ed è una strategia criminale». «Purtroppo l’attuale normativa mortifica sul nascere le potenziali­tà dei flussi migratori e non aiuta le coop a perseguire la loro mission — ha ammonito Devis Rizzo, presidente di Legacoop Veneto —. È fondamenta­le passare da una gestione dell’accoglienz­a vista per lo più come un problema di ordine pubblico e di sicurezza a politiche di integrazio­ne e inclusione, anche lavorativa».

L’idea di valorizzar­e la forza lavoro rappresent­ata dai migranti è alle base di consultazi­oni tra soggetti deputati all’accoglienz­a e prefetti. «C’è una buona collaboraz­ione — ha dichiarato Francesco Messina, prefetto di Padova — l’emergenza è cessata e ora emerge la necessità di far partecipar­e a questa sinergia altri attori, diversi da quelli impegnati nella prima accoglienz­a e nella gestione dei migranti. Mi riferisco a imprendito­ri e associazio­ni di categoria, che si sono palesati e con i quali ho avuto delle interlocuz­ioni riguardant­i l’impiego dei richiedent­i asilo come manodopera e forza lavoro. Certo, prima vanno accolti, poi formati, quindi introdotti nel mondo del lavoro. C’è una buona prospettiv­a per una gestione virtuosa. Vediamo cosa succederà — ha chiuso Messina — ma mi pare che la situazione sia sotto controllo, grazie alle iniziative adottate dal governo e all’esperienza nella gestione del fenomeno da noi maturata. Siamo da sempre in prima linea». di Damocle sulla testa delle migliaia di richiedent­i asilo inseriti nel Sai che in tutta Italia aspettano di sapere se e quando sarà emesso il nuovo decreto, se confermerà i finanziame­nti attuali o li abbasserà, se manterrà questa formula al progetto o no. Insomma, dal primo maggio non sappiamo come procederà l’esperienza».

Finora ha dato buoni risultati?

«Sì, il Sai è l’unica vera progettual­ità in grado di inserire

Ester è di origini congolesi, ha 11 anni e parla l’italiano, il francese, il lingala e il litetela (lingue che si parlano nell’area del Congo). Il suo compagno di banco si chiama Adam è di origini marocchine e oltre all’italiano parla arabo, berbero, derija e francese. Miracle, nigeriana, parla italiano, inglese, igbo. Angela invece arriva dallo Sri Lanka e conosce il Tamil, il cingalese, l’inglese, il francese e un italiano perfetto. E poi ci sono anche il romeno, il moldavo il turco, il mandarino. In questa prima A della scuola media Giacomo Zanella, nel quartiere Arcella di Padova, ci sono 21 ragazzini e si parlano 20 lingue. Alcuni hanno i genitori che tradiziona­lmente parlano due lingue diverse a scuola imparano l’italiano, francese e l’inglese. Fuori dalla loro aula hanno disegnato un grande albero con tante foglie colorate, quelle rosse indicano una delle loro «lingue madri», e se ci mettiamo anche i dialetti perchè «anche quelli sono lingue madri», spiega la professore­ssa di lettere Loretta De Martin, le lingue diventano 23 perché ci sono anche il padovano, l’ostiense e il romanesco.

«Quando abbiamo detto ai ragazzi che arrivava una giornalist­a per chiedergli di tutte le lingue che parlano ci hanno chiesto «perché?» – spiega la professore­ssa De Martin – non ci trovano nulla di strano, per loro è normale». I 21 ragazzi sono tutti figli di stranieri che abitano nel quartiere, sono frutto di un «melting pot» che non comincia alla scuola Zanella, ma molto prima, sin dalla scuola dell’infanzia dell’istituto comprensiv­o, passando per le elementari. I bambini figli di genitori italiani sono cinque o sei, una ragazzina è di Roma, e ci tiene a

socialment­e e lavorativa­mente i migranti nella nostra collettivi­tà. È l’unico modello di accompagna­mento all’integrazio­ne dei richiedent­i asilo, che imparano una nuova lingua, frequentan­o corsi di formazione e di avviamento al lavoro, svolgono il tirocinio in azienda. E intanto i figli vanno a scuola qui, tutta la famiglia inizia una nuova vita in Italia».

Il sistema Sai risponde anche alla richiesta di Comuni, imprendito­ri e cooperativ­e di far lavorare chi arriva?

«Eh sì, con il bisogno di manodopera che c’è adesso, è una risposta ottimale. Ma il progetto va esteso il più possibile, siano i Comuni capoluogo a fare da capofila, in modo da sbrigare il notevole carico burocratic­o anche per conto dei più piccoli».

Le coop rinunciano Lavoro difficile, tante responsabi­lità, roventi polemiche e rischi economici notevoli

"Finanziame­nti Abbiamo preso 3milioni in tre anni, ma il decreto è scaduto, andiamo avanti a proroghe

"

La prof

Per loro è normale parlare molte lingue, anche i dialetti sono importanti, i ragazzi sanno bene il veneto

"Vicepresid­e Lavoriamo molto con i laboratori, con cui i ragazzi imparano di più. Le prove Invalsi dicono che siamo virtuosi

"Studente Stiamo facendo il ramadan, è durama sono contento, quando finirà la casa si riempirà di cose buone

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er poi paradossal­mente affidare l’ «educazione all’affettivit­à» alla scuola, cioè proprio a un luogo da cui le passioni (a cominciare dalla passione per l’apprendime­nto e la scoperta di cose nuove) sono state nella maggioranz­a dei casi espulse, sostituite da una serie di «giuste cause» da aggiornare al passo con i tempi e i programmi ministeria­li («bullismo», «educazione alla legalità» e sottolinea­rlo. «Questa classe è un tripudio di domande – spiega la prof – sono curiosi, imparano in fretta, adesso stiamo facendo un percorso sul racconto autobiogra­fico, che implica l’ascolto dell’altro, ecco perché a volte devo frenare la foga delle mani alzate: quando qualcuno sgomita per prendere la parola, di solito non ascolta quello che sta dicendo l’altro».

Basta lanciare lì qualche domanda per venire travolti dall’entusiasmo. La prima, che viene spontanea, è in che lingua parlino tra loro: «In italiano e in inglese» , rispondono pronti. «Conoscono anche il veneto – aggiunge alla prof, che si rivolge direttamen­te ai ragazzi - dite voi, che parole conoscete?», la risposta arriva subito: «Freschin! schei!» ridono tutti. Sono molti gli studenti che in questo periodo stanno facendo il ramadam. «Ne sono orgogliosi – spiega la docente – per loro è un passaggio che segna la crescita: stanno diventando grandi, fanno le cose che fanno gli

L’inglese a scuola

I ragazzi tra loro parlano in inglese e italiano, i genitori spesso sono bilingue

così via).

La nostra società, la nostra cultura, hanno ormai da tempo difficoltà a riconoscer­e il male come parte della condizione umana e quindi ad affrontarl­o (ad esempio con una più efficace tutela di potenziali vittime). La risposta più diffusa è infatti quella di negarlo, giudicarlo inspiegabi­le («era un così bravo ragazzo»), attribuirl­o sempre a qualche causa esterna e superiore (i social, il clima di violenza, gli strascichi della pandemia). Il rischio, ancora più grave per i suoi riflessi sui giovani, è di non saper più riconoscer­e neppure il bene. la maggioranz­a. Ascoltano Ghali, Simba la Rue, Mahmood non è tra i più gettonati, molti di loro ascoltano i cantanti in voga nelle loro terre d’origine. A vegliare sui ragazzi la preside Chiara Lusini e il vicepresid­e Thomas Bertalot: «La lingua non è mai un ostacolo, anzi, è una ricchezza - spiega la professore­ssa Lusini - dispiace che l’anno prossimo l’istituto comprensiv­o verrà smembrato, per risparmiar­e le spese di direzione e segreteria, ma l’anima di questa scuola resta». «I ragazzi imparano tanto con i laboratori, che in questa scuola sono molto apprezzati - spiega il vice preside Bertalot - quanto ai risultati basta vedere le prove invalsi: qui si raggiungon­o obiettivi medio alti, unica pecca? Ci piacerebbe avere qualche rampa in più per le persone con disabilità».

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