L’opera di Donizetti La prima regia di Ferrario al Sociale
Siede accanto ai tecnici e all’assistente di regia, osserva quanto accade in scena. Sale sul palco per guardare da vicino gli attori e il direttore Roberto Rizzi Brignoli. Il maestro è nella buca e dirige gli orchestrali, per una musica dagli echi rossiniani, e bacchetta i cantanti, se serve. «Guardandolo imparo», commenta Davide Ferrario, al debutto da regista d’opera. «Mi diverto», risponde se gli si chiede come procede con «Il borgomastro di Saardam», composta da Gaetano Donizetti nel 1827 e in scena al Sociale per il Donizetti Opera. E ammette: «Il cinema ora mi interessa meno. Antropologicamente le sale cinematografiche sono morte. Per raccontare una storia si usano i videogiochi o le serie. Mi sto guardando anche altrove: Concetti, sapendo che lo zar è in città sotto mentite spoglie, si convince che Flimann sia Pietro il Grande. Nel frattempo, il vero zar è richiamato in patria per sedare una rivolta e deve rivelare l’identità. Prima di partire, concede al giovane amico un titolo nobiliare, che gli permetterà di sposare Marietta.
Da spettatore di opere liriche Ferrario desidera che l’opera racconti una storia in modo chiaro. Per farlo si è chiesto quale fosse la natura del titolo donizettiano, trovando nella «dignitosa commedia» la risposta. Il suo scopo era «farla funzionare, perché fosse una divertente macchina di intrattenimento, e farla capire. Mi piace pensare di raccontarla a chi non conosce il libretto. Chi sa oggi chi è Pietro il Grande? — chiede Ferrario —. L’obiettivo è stato scrivere una drammaturgia che spieghi l’antefatto, la vicenda, il finale. In alcuni casi ho introdotto degli accorgimenti registici, chiedendo ai cantanti di eseguire semplici passaggi o comportamenti per spiegare le intenzioni racchiuse in alcune arie. Oltre al cantare è importante che gli attori recitino». Il fatto che gli artisti usino il canto, per il regista «è liberatorio — continua —. Cantare ha un che di retorico, assente nel realismo cinematografico. A teatro sai che puoi far per finta e la gente accetta la finzione, considerandola realistica. Al cinema invece, pur essendo finzione, lo spettatore vuole vedere una storia credibile». Non avendo termini di paragone, poiché l’opera è stata messa in scena un secolo e mezzo fa, Ferrario rappresenta «una riedizione che rispetta l’essere opera giocosa — dice il regista —. Per spiegare a Flimann e Marietta la natura del loro rapporto ho mostrato loro una scena di Buster Keaton, perché il sentimento è vero anche se condito di comicità». Essendo una macchina da intrattenimento, per Ferrario l’opera deve riferirsi all’immaginario , non alla verità quotidiana e storica. Così i costumi, ideati da Giada Masi, si ispirano al cinema muto degli anni Trenta, mentre i fondali sono proiezioni di disegni di Giacomo Quarenghi. Il coro ricorda i popolani della Rivoluzione Russa, ma la loro condizione di artigiani migranti, per riconosciute abilità di lavoratori, rimanda alla storia dei bergamaschi. Per Ferrario Saardam è Bergamo. Sul mare. In scena la chiglia in costruzione di una nave. L’opera, dal sapore nostrano, è pronta a salpare.