RICATTI E VIOLENZE
Ho conosciuto bene Harvey Weinstein quando, quindici anni fa, stava per produrre un mio film. Era prima di tutto un uomo di potere, che godeva nell’esibirlo. Questo tratto del carattere assumeva, nei confronti delle donne, la forma dell’offerta di uno scambio: sesso per un ruolo in un film. Non ho usato apposta né il termine violenza, né quello di molestia. Personalmente – e ben consapevole di essere un maschio (ma anche con il conforto di molte donne del cinema con cui ho parlato in queste settimane) – trovo che lo scandalo scoppiato intorno al suo nome (con varia sottocasistica, anche nazionale) abbia preso una deriva impropria. Mi è difficile, per esempio, considerare «vittima» una come Ambra Battilana Gutierrez che, molestata, aveva stretto un accordo per un milione di dollari in cambio del silenzio. Salvo oggi chiedere «giustizia». Trovo perciò significativo che proprio una donna che lavora a Bergamo come magistrato, Carmen Pugliese, abbia espresso in pubblico più o meno le stesse opinioni. Anzi, in modo ancora più duro: «Le denunce… nel mondo dello spettacolo sono un’offesa alle donne maltrattate». Più o meno sulla stessa linea le dichiarazioni delle responsabili locali di gruppi che lavorano contro la violenza di genere. Per quanto torbido, riprovevole e ingiusto, quello del ricatto sessuale è un ambito specifico, al quale la ricattata può opporre una scelta. Molto più drammatica, reale e diffusa la prevaricazione pura e semplice dell’uomo sulla donna, coperta dall’ipocrisia del matrimonio o dell’«amore». E, per quella, non bisogna andare a Hollywood.