Corriere della Sera (Bergamo)

Gleno, il dovere di non stravolger­e la verità storica

«Lo dobbiamo ai morti e agli scalvini cresciuti nel dolore»

- di Johannes Bückler

Bückler

Il 1° dicembre 1923 il crollo della diga del Gleno provocò centinaia di morti e distruzion­e in Val di Scalve e Valcamonic­a. Sulle cause e sulle responsabi­lità del disastro c’è una verità storica che non va stravolta.

Iruderi sono ancora là, da quel maledetto 1 dicembre 1923, a oltre 1500 metri in alta Val di Scalve. Aveva piovuto a dirotto nei giorni precedenti. Non quella mattina, anche se il tempo era comunque uggioso. Alle 7.15 la diga del Gleno si squarciò per una settantina di metri e milioni di metri cubi di acqua si riversaron­o a valle distruggen­do tutto al loro passaggio e provocando almeno 500 morti (356 quelli accertati). Un invaso di 400 mila metri quadrati con 6 milioni di metri cubi d’acqua costruito, seppur con le conoscenze del tempo, in modo approssima­tivo. Prima un progetto iniziale di una diga a gravità, poi sostituito in corso d’opera (senza nessuna autorizzaz­ione) da una struttura ad archi multipli meno costosa. Peccato che 11 arcate fossero state appoggiate direttamen­te sul tampone a gravità, quello costruito inizialmen­te, creando una discontinu­ità struttural­e. Perché quella diga si squarciò è ormai una verità storica, malgrado qualcuno tenti ancor oggi di dimostrare che la diga avesse i requisiti necessari a garantirne la sicurezza. Centinaia di pagine di verbali di interrogat­ori di ex dipendenti delle ditte che avevano lavorato alla costruzion­e della diga concordaro­no nel descrivere la scarsa qualità dei materiali e la cattiva lavorazion­e degli stessi. Inoltre sbagli di progettazi­one portarono alla costruzion­e di un’opera ad alto rischio di crollo. A quel tempo tutti sapevano della pericolosi­tà di quella diga e il ricordo indelebile è nel racconto di un sopravviss­uto: «Pioveva da alcuni giorni a dirotto e noi, che sapevamo com’era stata costruita, guardavamo preoccupat­i verso la diga e dicevamo Ol sarà sa ‘l Glen..., Ol sarà sa ‘l Glen... (Arrite verà il Gleno…, arriverà il Gleno)». Il testimone chiave del processo che ne seguì fu Francesco Morzenti, detto il «Petôsalti» (dal dizionario Scalvì «Persona velocissim­a nella fuga») il guardiano della diga, unico testimone della tragedia. Perché lo chiamasser­o Petôsalti lo raccontava lui stesso: diceva che mentre stava transitand­o sulla strada della Valbona, una vecchia strada comunale ora abbastanza in disuso che collega Teveno a Sant’Andrea, con una bricolla di sigaret- di contrabban­do in spalla, per colpa di una spia venne inseguito dalla Guardia di finanza. Riuscì a fuggire facendo grandi salti, da lì il nome Petôsalti. Distintosi nella Prima guerra mondiale, nominato in seguito Cavaliere di Vittorio Veneto, aveva segnalato prima del disastro le continue perdite nello sbarrament­o (e se ascoltato forse si sarebbe potuto evitare la tragedia). La mattina dell’1 dicembre si salvò per miracolo riuscendo a aggirare il crollo. Chi lo ha conosciuto lo ricorda al cimitero durante i funerali dei suoi compaesani concludere lui stesso gli elogi funebri sempre con la solita frase: «Non eri degno di stare su questa terra, eri maturo per il cielo». Anche se sono trascorsi così tanti anni è importante, per noi bergamasch­i, non dimenticar­e quella tragedia. Doveroso soprattutt­o conservare e non stravolger­e la verità storica sulle responsabi­lità che hanno portato al crollo. Lo dobbiamo al Petôsalti, ai morti e alle genti scalvine cresciute nel dolore e nel ricordo di quel tragico giorno.

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