« QUEI BAMBINI DI SARAJEVO SENZA FUTURO»
Il generale serbo Jovan Divjak, che difese la città durante l’assedio, ospite domani a Nembro. «L’incognita del futuro per i nostri bimbi»
«Per certi versi oggi a Sarajevo è peggio che durante la guerra perché non può esserci futuro in un Paese dove i bambini studiano la storia su tre libri diversi, a seconda della loro etnia». Così Jovan Divjak, il generale serbo che difese Sarajevo durante l’assedio, che domani sera sarà all’auditorium Modernissimo di Nembro per raccontare i drammi dell’ex Jugoslavia.
Jovan Divjak Per certi versi oggi è peggio che durante la guerra: il Paese rischia di non avere futuro
Il giornalista bergamasco Gigi Riva conobbe il generale Jovan Divjak nel 1992, all’inizio dell’assedio di Sarajevo. Domani sera, all’auditorium Modernissimo di Nembro, introdurrà l’incontro con il generale invitato da Comune e Biblioteca nell’ambito del cartellone In the Name of. Pubblichiamo la sintesi della presentazione.
Prima ancora che generale, Jovan Divjak è una persona brava. Di quelle che non esitano a rinunciare ad agi e privilegi se in gioco c’è qualcosa di più importante, la dignità.
Jovan, serbo per nascita e cosmopolita per identità autocertificata, era un ufficiale dell’esercito jugoslavo quando la Storia lo mise davanti a un dilemma: seguire i suoi connazionali avendone in cambio onori e gloria; oppure difendere la popolazione civile di Sarajevo da un’aggressione che si trasformò nell’urbicidio della città. Non esitò a scegliere la seconda vita. Per postura eretta e per i valori imparati in quella palestra di comportamento che era stata l’armata di Tito. I serbi non lo accettavano ai tavoli delle innumerevoli trattative di pace perché lo consideravano un traditore. Era l’incarnazione della falsità del postulato per cui avevano scatenato il conflitto: l’impossibilità di vivere assieme.
I musulmani di Bosnia, viceversa, lo adottarono come simbolo della resistenza multietnica della città. Sapeva, in cuor suo, che usavano la sua immagine. Lo facessero pure, era per una buona causa.
Lo conobbi a inizio dell’assedio (1992), nel suo scarno ufficio. Lingua comune il francese che aveva studiato a Parigi. Durante la prima intervista cantò Yes Montand, Edith Piaf, Aznavour. Rispose alla mia domanda
su quanti anni avesse facendo una verticale a due mani sul tavolo. Significava: ne ho 55 ma sono ancora in forma.
Ironico, intelligente, sagace, un misto di forza e dolcezza.I soldati lo adoravano. La notte, prima di andare a dormire, andava su tutte le linee del fronte della città, per rincuorarli, portare una bottiglia di grappa, sigarette, cioccolato. Era il comandante che rischiava con loro e non li mandava allo sbaraglio. Non so quante ore dormisse, era onnipresente. E non disdegnava i caffè letterari dove la Sarajevo colta simulava la normalità come forma di resistenza all’aggressione. I poeti e gli scrittori gli erano cari al pari delle sue truppe.
A guerra finita il partito musulmano al potere se ne sbarazzò immediatamente. In fondo era un serbo e non serviva più. Non l’ho mai sentito piangere sul destino che lo aveva beffato due volte. Non erano quelli i tempi per chi, come lui, rifiutava l’etnocentrismo, la chiusura tribale. Da allora, profonde tutti i suoi sforzi nell’associazione che aiuta e finanzia gli studi degli orfani di guerra. La pace — questa specie di pace — l’ha disilluso: «Per certi versi — dice — oggi è peggio che durante la guerra perché non può avere futuro un Paese dove i bambini studiano la storia su tre libri diversi, a seconda della loro etnia».
Jovan Divjak è un eroe contemporaneo, finalmente sarà a Nembro, il mio paese. Essergli amico è un onore di cui vado orgoglioso.