LA DROGA DEI FIGLI
Un figlio adolescente ogni giorno più incostante, irritabile e bugiardo. I genitori temono quello che non confessano: si droga. Sappiamo bene che dalla marijuana alla cocaina ci sono solo differenze quantitative (anche di censo), ma non qualitative. Il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, parlando agli studenti dell’Università di Bergamo, ricordava che la ‘ndrangheta, grazie anche alla manovalanza extracomunitaria, spaccia droga per 40 miliardi di euro all’anno. Tutti in nero. Ovvio che i genitori, a questo punto, vadano in crisi. Si gettano allora sui social per «imparare» dall’esperienza degli altri. Visitano pagine di presunti dottori del parenting. Si persuadono di non avere le capacità necessarie per crescere i figli e di relazionarsi con loro come si dovrebbe. Cominciano a chiedere aiuto alla scuola. Che i docenti e i dirigenti guardino quanto il figlio è assente con la testa e con il corpo, poi intervengano. Non si limitino alle lezioni, uscendo dall’aula a fine ora. Ma anche la scuola, che pure moltiplica piani di azione sulla prevenzione e contro le tossicodipendenze, ripete ben presto la medesima logica dei genitori: sente di non avere le forze necessarie per intervenire come dovrebbe. E rimanda così anch’essa ad altro. Ad affermati professionisti della terapia: che i ragazzi problematici si facciano curare, magari coinvolgendo anche i genitori. E/o alle forze dell’ordine: che facciano incursioni improvvise per scoprire erba e bustine a scuola o appena fuori, per cogliere in flagranza imberbi o più attempati spacciatori.
E così il gioco dell’oca della «cultura della terapia», per dirla con il titolo del famoso libro di Frank Furedi, si moltiplica ancora di più: giudici minorili, assistenti sociali, psicologi e psichiatri, comunità di recupero, educatori specializzati. Magari perfino il carcere. No, la via dell’educazione per prevenire e curare la droga, come qualsiasi altro disagio, non è quella del rimando ad altro, sempre più specialistico. È molto più ordinaria. È quella, anzitutto, della corresponsabilità. Il disagio giovanile, al pari di quello adulto o anziano, non è solo un problema del singolo, ma anche e soprattutto delle formazioni sociali che lo circondano: la famiglia, il vicinato, la parrocchia, il quartiere, le associazioni, le imprese, i sindacati, i mass media. Nessuno può voltarsi dall’altra parte. Ciascuno è chiamato ad ingaggiarsi per ciò che può, con l’esempio e la testimonianza, in particolare nelle piccole cose di ogni giorno. In secondo luogo, della responsabilità personale. Dove trovano i ragazzi da 25 a 100 euro per acquistare le dosi? Forse imparerebbero a farne anche a meno se fossero abituati a scoprire quanto «lavoro» serve per guadagnarseli: aiutare in casa, dalla pulizia alle commissioni varie, lavare le automobili di famiglia, aggiustare le biciclette, fare la spesa al vicino di casa anziano ecc. Non si possono esercitare né corresponsabilità sociali né responsabilità personali, infine, se giovani e adulti non vivono il tempo della relazione. Diceva Rousseau che, in educazione, si deve perdere tempo per guadagnarlo. La vera relazione compiutamente umana, cioè educativa, è questa. Non quella che si intrattiene sui social tra selfie, post e hashtag dell’infosfera o con i robot dell’intelligenza artificiale. Sono tutte relazioni differenziali che non restituiscono la complessità di quella che intercorre ad esempio nel pranzo quotidiano con genitori e fratelli o nell’imparare a stare per qualche tempo con persone sentite come moleste.