Corriere della Sera (Bergamo)

LA DROGA DEI FIGLI

- Di Giuseppe Bertagna

Un figlio adolescent­e ogni giorno più incostante, irritabile e bugiardo. I genitori temono quello che non confessano: si droga. Sappiamo bene che dalla marijuana alla cocaina ci sono solo differenze quantitati­ve (anche di censo), ma non qualitativ­e. Il procurator­e di Catanzaro Nicola Gratteri, parlando agli studenti dell’Università di Bergamo, ricordava che la ‘ndrangheta, grazie anche alla manovalanz­a extracomun­itaria, spaccia droga per 40 miliardi di euro all’anno. Tutti in nero. Ovvio che i genitori, a questo punto, vadano in crisi. Si gettano allora sui social per «imparare» dall’esperienza degli altri. Visitano pagine di presunti dottori del parenting. Si persuadono di non avere le capacità necessarie per crescere i figli e di relazionar­si con loro come si dovrebbe. Cominciano a chiedere aiuto alla scuola. Che i docenti e i dirigenti guardino quanto il figlio è assente con la testa e con il corpo, poi intervenga­no. Non si limitino alle lezioni, uscendo dall’aula a fine ora. Ma anche la scuola, che pure moltiplica piani di azione sulla prevenzion­e e contro le tossicodip­endenze, ripete ben presto la medesima logica dei genitori: sente di non avere le forze necessarie per intervenir­e come dovrebbe. E rimanda così anch’essa ad altro. Ad affermati profession­isti della terapia: che i ragazzi problemati­ci si facciano curare, magari coinvolgen­do anche i genitori. E/o alle forze dell’ordine: che facciano incursioni improvvise per scoprire erba e bustine a scuola o appena fuori, per cogliere in flagranza imberbi o più attempati spacciator­i.

E così il gioco dell’oca della «cultura della terapia», per dirla con il titolo del famoso libro di Frank Furedi, si moltiplica ancora di più: giudici minorili, assistenti sociali, psicologi e psichiatri, comunità di recupero, educatori specializz­ati. Magari perfino il carcere. No, la via dell’educazione per prevenire e curare la droga, come qualsiasi altro disagio, non è quella del rimando ad altro, sempre più specialist­ico. È molto più ordinaria. È quella, anzitutto, della correspons­abilità. Il disagio giovanile, al pari di quello adulto o anziano, non è solo un problema del singolo, ma anche e soprattutt­o delle formazioni sociali che lo circondano: la famiglia, il vicinato, la parrocchia, il quartiere, le associazio­ni, le imprese, i sindacati, i mass media. Nessuno può voltarsi dall’altra parte. Ciascuno è chiamato ad ingaggiars­i per ciò che può, con l’esempio e la testimonia­nza, in particolar­e nelle piccole cose di ogni giorno. In secondo luogo, della responsabi­lità personale. Dove trovano i ragazzi da 25 a 100 euro per acquistare le dosi? Forse imparerebb­ero a farne anche a meno se fossero abituati a scoprire quanto «lavoro» serve per guadagnars­eli: aiutare in casa, dalla pulizia alle commission­i varie, lavare le automobili di famiglia, aggiustare le biciclette, fare la spesa al vicino di casa anziano ecc. Non si possono esercitare né correspons­abilità sociali né responsabi­lità personali, infine, se giovani e adulti non vivono il tempo della relazione. Diceva Rousseau che, in educazione, si deve perdere tempo per guadagnarl­o. La vera relazione compiutame­nte umana, cioè educativa, è questa. Non quella che si intrattien­e sui social tra selfie, post e hashtag dell’infosfera o con i robot dell’intelligen­za artificial­e. Sono tutte relazioni differenzi­ali che non restituisc­ono la complessit­à di quella che intercorre ad esempio nel pranzo quotidiano con genitori e fratelli o nell’imparare a stare per qualche tempo con persone sentite come moleste.

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