Da Renzi l’ex skin che uccise il padre
Ha scritto un libro, invitato a parlare alla Leopolda. Protagonista di risse anche a Bergamo
Uccise suo padre per salvare la mamma, dopo trent’anni di violenze in casa. E per la sua drammatica storia, raccontata anche in un libro, Luigi Celeste è stato invitato a parlare alla Leopolda, abbracciato anche da Matteo Renzi. Prima di quel drammatico episodio del 2008, però, era stato uno skinhead, protagonista di risse violente anche a Bergamo: una con accoltellamenti, ad esempio, in piazza Cittadella. In molti non l’hanno dimenticato. «Ma con quel mondo non c’entro più ».
Le aggressioni «Quella non era politica, c’erano solo scontri tra bande, non mi interessa più»
Non ha proprio niente da nascondere, Luigi Celeste, 32 anni, di Milano. Se gli si pone una domanda sulla sua vita lui racconta, invia atti giudiziari per far capire, invita a leggere il suo libro: «Non sarà sempre così, la mia storia di rinascita e riscatto dietro le sbarre». Ricorda gli scontri e le risse a Bergamo e nel resto della Lombardia tra il 2004 e il 2006, quando faceva parte di un gruppo di skinhead, girando per strade e piazze con i coltelli in tasca. Parla del presente, della stretta di mano e dell’abbraccio di Matteo Renzi alla Leopolda, due settimane fa, dove è stato invitato dal sottosegretario alla presidenza Maria Elena Boschi, a parlare di se stesso, della sua storia, nella giornata contro la violenza sulle donne. Da quei blitz, con risse e accoltellamenti contro coetanei della sinistra antagonista, fino alla giornata di Firenze, sono passati 13 anni, in cui lui ha ucciso. Il 20 febbraio del 2008 ha assassinato suo padre a colpi di pistola. «Sono stato costretto a farlo per difendere mia madre, dopo 30 anni di violenze», ha raccontato dal palco della Leopolda, prendendosi un applauso. E il tribunale gli aveva riconosciuto tutte le circostanze attenuanti del caso, condannandolo a 9 anni di carcere.
Un gesto, il suo, che condizionerebbe la vita di chiunque, che va oltre qualsiasi identità politica del passato, per quanto violenta. Ma non per tutti è facile dimenticare, tornando al 2004, quando Luigi Celeste non aveva ancora 20 anni. Frequentava una ragazza di Cologno al Serio e con un gruppo di skin, estrema destra, si trovava spesso a Bergamo. Com’era accaduto il 1° agosto di quell’anno, in Città Alta, piazza Cittadella. Il suo gruppo era appena uscito dal Circolino e la rissa era esplosa pochi secondi dopo. Un testimone aveva riferito di aver sentito urlare, ad alta voce: «Fascisti di merda!». E sei persone, definite «anarcoautonome» dalla polizia, vicine al centro sociale Pacì Paciana, erano rimaste ferite a coltellate. Una in particolare anche all’addome. Erano i gesti che si inquadravano in un clima di ritorno di una certa violenza politica. Al Pacì Paciana non era mancato un incendio doloso, a Seriate un’altra aggressione. E a Bergamo, soprattut- to dopo piazza Cittadella, il volto e il nome di Luigi Celeste sono rimasti impressi. Non è mancato chi, in questi giorni, nell’area antagonista cittadina, ha notato il video in YouTube del suo intervento alla Leopolda. Quel ragazzo senza capelli sul palco, fisico possente, tatuaggi che spuntano dalle maniche e dal collo della camicia. Il tam tam gira sui social: «Renzi con i nazi…». E ancora: «Tutti indignati per 4
naziskin a Como, senza preoccuparsi di chi viene invitato alla Leopolda».
Ma Luigi Celeste è chiaro: «Nel mio libro (Piemme Editore, a quattro mani con Sara Loffredi, ndr) ho raccontato la mia storia familiare ma anche quel passato da skinhead. Non ho nascosto nulla. Maria Elena Boschi l’ha letto e mi ha invitato alla Leopolda, a parlare di me, del gesto per salvare la mia famiglia, di violenza sulle donne e del mio riscatto. Parlerei degli stessi temi, se servisse, anche davanti a Berlusconi. Dei partiti e della politica in senso stretto non mi interessa nulla. Comunque, per fatti come quello di Città Alta, e altri, ho preso una condanna a 1 anno e 10 mesi, per rissa e lesioni. Direi che non era politica, c’erano solo scontri tra bande, dal mio punto di vista senza buoni e cattivi. Eravamo tutti cattivi». Era uno skinhead forse non per caso: «La mia storia familiare, la mia rabbia personale, avevano contato parecchio per arrivare in quel gruppo. Tra gli skin c’era un calore
Tra gli skin trovavi una famiglia, un calore che ti accoglieva, ci si chiamava fratelli, qualcosa di decisivo per chi aveva una storia familiare come la mia
che quasi ti accoglieva, ci si chiamava fratelli. Se bucavi una gomma alle 3 del mattino arrivavano gli altri a soccorrerti. Mi piaceva che si lottasse per degli ideali, anche se poi, naturalmente, dietro certi personaggi trovavi molta ipocrisia. Non voglio più saperne, da un pezzo».
Il 20 febbraio 2008 Luigi ha ucciso suo padre, «dopo trent’anni di violenza su mia mamma», ha raccontato alla Leopolda. Pressioni psicologiche, botte e ferite davanti ai figli, fin da piccoli. Un gesto enorme, quei colpi di pistola, che portò la madre Licia, in tribunale, a dire qualcosa di forte: «Si è sacrificato per liberarci da un incubo. Facciamo in modo che suo padre non infierisca anche da morto». Una vita stravolta. In carcere ha studiato informatica, per ore e ore, grazie alla Cisco Academy. È diventato un esperto di sicurezza in ambito digitale, oggi tutela una multinazionale. Un detenuto modello uscito in semilibertà, rischiando però uno scivolone. Nel 2013 era stato notato mentre posava come modello, indossando una maglietta dei Do.Ra., la Comunità dei 12 raggi
Trent’anni di violenza da parte di mio padre, su mia mamma. Non c’è altro modo per dirlo: l’ho ucciso per difenderla Luigi Celeste 32 anni
A sinistra L’area antagonista ha notato la sua presenza a Firenze e critica: «Nessuno dice niente»
di Varese, estrema destra. Ed era tornato in carcere. Ma il magistrato di sorveglianza l’aveva rimesso in semilibertà nel giro di tre settimane, senza ravvisare una nuova e sostanziale adesione all’estremismo politico violento. «Erano solo rimasti dei legami di tipo personale con qualcuno e mi ero prestato per fare quelle foto — racconta lui —. Non c’è stato altro». E oltre i simboli e gli slogan di quel passato politico, tutti incisi sulla pelle da un pezzo, sulla schiena è spuntato il suo tatuaggio più grande, dopo il carcere: una grande foto di famiglia, anni fa. Lui da piccolo, con i riccioli: «Siamo noi, senza mio padre. Di quel gesto non mi sono mai pentito».