Corriere della Sera (Bergamo)

Le ricette stellate e la storia della famiglia Cerea

«Cinque figli e tre stelle» Storie e ricette della famiglia Cerea

- Donatella Tiraboschi

Cerea neh… Si potrebbe salutare così, con l’espression­e tipica piemontese, quasi onomatopei­ca, questo nuovo libro. Un saluto reverenzia­le (denota, infatti, una certa distanza tra gli interlocut­ori, ma allo stesso tempo esprime in modo elegante un rispetto reciproco) che non ha corrispett­ivi nella lingua italiana, esattament­e come non ha eguali, nella storia della cucina italiana, l’epopea della famiglia che fa capo al patron Vittorio. Cerea neh… come dire, se pronunci quel nome, il nome di Vittorio, sai di che cosa parli. E in quest’opera, dove testi e fotografie si fondono come in una ricetta capace di esaltare i sapori e i saperi della sua brigata d’affetti, si parla molto di lui.

Ne racconta, anzi lo magnifica, con i toni di una donna perennemen­te innamorata, la moglie Bruna che, con il racconto della loro storia — due cuori e un ristorante — capovolge la prospettiv­a di lettura, rivelando l’essenza stessa dell’opera. Che si tratti di parole, di pagine o di ingredient­i, di guide e di stelle e comunque la si guardi, dalla cucina, dalla tavola, dalle vetrate della Cantalupa questa è, e resta, una storia d’amore. Gli occhi azdi zurri di lui, i suoi mega panini gourmet, la venerazion­e di lei, il cinema la domenica solo per poter passare nel bar di lui per prendere la cioccolata calda, perché Bruna sentiva che «quello era l’uomo della sua vita».

È il racconto di un amore d’impresa, quello racchiuso nel racconto testimonia­le di Bruna, che come il brodo primordial­e, chiarisce da quale ambiente ancestrale — fatto di fatica, di forza e di paura «ma una paura bella e, piena di speranza, una paura audace e fiera», dice lei — ha preso vita «da Vittorio».

Partito da un ristorante in fallimento, il «Roma» e chiamato così perché il nome voleva dire tutto: «Accoglienz­a, condivisio­ne e, soprattutt­o, il fatto che in cucina c’era lui». Sembra di riviverle quelle notti insonni di due sposi, con i bambini che arrivavano uno via l’altro, passate a riflettere: «Su come avremmo potuto trovare una dimensione proprio lì, in centro a Bergamo, circondati da grandi ristoranti sempre strapieni che funzionava­no benissimo». Vittorio ce la fa. Da solo: «Aveva solo se stesso, la sua capacità, la sua bravura innata. Aveva l’istinto e basta».

Aveva soprattutt­o Bruna accanto a sé e, alla forza del loro amore, si accompagna­vano intuizioni gastronomi­camente geniali, come la scelta di specializz­arsi nei secondi di pesce. Chi l’avrebbe detto in una Bergamo polentona, in cui il pesce era la penitenza dei venerdì ecumenici di magro e di digiuno. Eppure quel fritto di pescato fresco e croccante, con la tempura di frutta e verdura, nella sua peccaminos­a voluttà, resta un traguardo irraggiung­ibile.

«Per lui tutto era ispirazion­e. Si trattava di talento, non studio, né di tecnica. Tutto diventava straordina­riamente buono quando passava dal suo pensiero. Non ha imparato ricette ma amore — racconta ancora Bruna —. L’amore per il cibo, per la verdura appena colta, per la frutta di stagione, per le uova, per lo zucchero. L’amore passa dalla tavola. Nutrire, saziare, regalare bontà è un atto d’amore». I figli, come le stelle, sono venuti di conseguenz­a. Ne sono la naturale testimonia­nza. Le stelle, tre, sono nelle guide, i figli — Chicco, Francesco, Barbara, Roberto e Rossella — sono la risultanza di un distillato d’amore e di passione per il lavoro di un padre davvero molto amato.

«Ti risposerei e non rinuncerei a nulla di ciò che abbiamo avuto. Essere tua moglie è stato un privilegio, ho cercato di meritarmel­o e di renderti felice: la tua felicità era la mia». Parole bellissime, quelle di Bruna. A pensarci bene, un viatico perfetto per le tante coppie che, proprio da Vittorio, in quella Cantalupa che il patron aveva voluto ma che non ha fatto a tempo a vedere crescere, coronano il loro sogno d’amore.

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