Un buon motivo per correre e prendere il treno al volo
Nove e zero uno. Manca un minuto alla partenza. Uno a fianco all’altro ci fiondiamo nel sottopasso. Lui con un trolley, io con la bici pieghevole. Baldi cinquantenni divoriamo a balzi la scala per il binario 6 e saltiamo sulla prima carrozza che capita. Non c’è un buco, tutto pieno. Mi sporgo, il capotreno è in banchina a parlare con un collega. Ci provo. Salto giù e corro verso la coda treno, che di solito rimane vuota. L’altro dietro. Saliamo insieme sull’ultimo vagone. Ansimanti come bufali prendiamo posto. Lui su un lato, io di fronte a lui sull’altro. Il treno parte, non ci conosciamo ma scatta un cenno d’intesa. Come dire: «È fatta, dammi un cinque». Non che lo tenga d’occhio, ma ce l’ho di fronte e lo vedo tutto il tempo a braccia conserte. Non usa il cellulare, non fa telefonate e non manda messaggi. A Pioltello sale una florida quarantenne, lunghi capelli biondi e guance divinamente arrossate dal freddo. Bella donna. Mi sfiora e va a sedersi accanto al mio compagno d’avventura. Non si dicono nulla. A un certo punto lei lo accarezza sulla pelata. Si guardano negli occhi e quando il treno parte cominciano a baciarsi. C’è qualcosa che non quadra. Lui, lo ripeto, non ha mai usato il telefono. Quindi non può aver comunicato la sua posizione sul treno. E quando lei è arrivata sembravano due perfetti estranei. Tra loro non una parola. Poi di colpo uno tsunami di tenerezze. Li osservo quando scendono in Centrale. Si separano, ognuno va per la sua strada. È un mistero. E per me pure un cruccio. Osservo il coetaneo che s’allontana. E rosico da bestia: ma se solo fossi stato seduto al posto suo, sarebbe toccato a me?