Processo Macchi, la verità di Binda «Non ero con Lidia quando morì»
Varese, le amnesie dell’imputato. La procura: test del dna per gli amici della ragazza
Sarà la sentenza a rivelare VARESE se Stefano Binda abbia convinto o meno i giudici, ma una cosa è certa: la madre di Lidia Macchi non si è fatta persuadere. Il 50enne di Brebbia, accusato dell’omicidio della studentessa, ieri ha negato tutto, parlando in aula per la prima volta davanti dalla corte d’Assise. E ha ribadito il suo alibi: «Quando Lidia morì ero a Pragelato a una vacanza di Comunione e liberazione, in montagna. Seppi che Lidia era scomparsa una volta sceso dal pullman, il 6 gennaio del 1987, quando arrivammo tutti insieme in piazza Monte Grappa a Varese». La madre di Lidia, Paolina Bettoni, davanti alle telecamere scuote la testa: «L’avete sentito anche voi, non fatemi dire nulla». Ma poco dopo, a luci spente, si lascia andare a una confidenza: «Si ricorda un po’ quello che vuole lui, dice di esser stato in vacanza a Pragelato, ma non sa dire il nome di qualche persona che era presente con lui…». Sorriso amaro, quello della donna, che ha seguito l’intera testimonianza affiancata dall’altra figlia, Stefania Macchi.
Ed è proprio sulla vacanza di Pragelato che insiste l’avvocato di parte civile Daniele Pizzi: «L’unica certezza è che Binda non ha un alibi». Il procuratore generale Gemma Gualdi glielo ha chiesto più volte in udienza: «Con chi ha parlato in quella vacanza, se lo ricorda?». Ma Stefano Binda non ha saputo rispondere: ha ribadito che lui partecipò a quella gita in montagna, ma oggi confonde gli episodi. Non sa dire se si riferiscano al 1987 o alla vacanza dell’anno precedente. L’imputato, in carcere da due anni, ha risposto per tutta la giornata alle contestazioni dell’accusa, in particolare sui biglietti trovati nelle sue agende. Tra tutti, uno è il più suggestivo: «Stefano è un barbaro assassino». Una confessione? «Non sapevo di avere quel biglietto — ha risposto Binda —, non l’ho scritto io, si trova sul retro di una versione di greco che presi probabilmente a scuola, e che poi conservai in un’agenda. Ma non è un mio commento». Nessuna certezza è emersa, ma certe coincidenze colpiscono: la foto di Lidia nell’agenda, e una pagina strappata sulla data del ritrovamento del corpo sebbene Binda affermi di non essere mai stato un caro amico della vittima. Nei suoi frammenti di scritti si parla di una «notte dei singhiozzi» o ancora di aver «distrutto tutto».
Binda ribatte, riconduce tutto ai sensi di colpa: «Decisi di smettere con la droga, ma ci ricascai». Il 50enne ha inoltre negato di aver mai detto all’amica Patrizia Bianchi la seguente frase: «Tu non sai che cosa sono stato capace di fare». E replica: «Non ho mai accompagnato Patrizia Bianchi vicino a un parco di Varese, pochi giorni dopo l’omicidio, per gettare via un sacchetto che avrebbe potuto contenere chissà che cosa. È un episodio che non è mai accaduto. È un’affermazione che non ha alcuna logica — ha continuato — perché mai avrei dovuto gettare un sacchetto a Varese e farmi vedere da un’altra persona, quando invece abitavo a Brebbia in una zona vicino al Lago Maggiore e ai boschi?». Il procuratore Gualdi ha chiesto una perizia psichiatrica su Binda ma ha anche invitato gli amici di Lidia che baciarono la salma prima della copertura della bara, a sottoporsi al test del dna per potere eventualmente rintracciare una contaminazione casuale del corpo, per esempio i 4 capelli trovati dai periti sui resti della studentessa.