Corriere della Sera (Bergamo)

Processo Macchi, la verità di Binda «Non ero con Lidia quando morì»

Varese, le amnesie dell’imputato. La procura: test del dna per gli amici della ragazza

- Roberto Rotondo

Sarà la sentenza a rivelare VARESE se Stefano Binda abbia convinto o meno i giudici, ma una cosa è certa: la madre di Lidia Macchi non si è fatta persuadere. Il 50enne di Brebbia, accusato dell’omicidio della studentess­a, ieri ha negato tutto, parlando in aula per la prima volta davanti dalla corte d’Assise. E ha ribadito il suo alibi: «Quando Lidia morì ero a Pragelato a una vacanza di Comunione e liberazion­e, in montagna. Seppi che Lidia era scomparsa una volta sceso dal pullman, il 6 gennaio del 1987, quando arrivammo tutti insieme in piazza Monte Grappa a Varese». La madre di Lidia, Paolina Bettoni, davanti alle telecamere scuote la testa: «L’avete sentito anche voi, non fatemi dire nulla». Ma poco dopo, a luci spente, si lascia andare a una confidenza: «Si ricorda un po’ quello che vuole lui, dice di esser stato in vacanza a Pragelato, ma non sa dire il nome di qualche persona che era presente con lui…». Sorriso amaro, quello della donna, che ha seguito l’intera testimonia­nza affiancata dall’altra figlia, Stefania Macchi.

Ed è proprio sulla vacanza di Pragelato che insiste l’avvocato di parte civile Daniele Pizzi: «L’unica certezza è che Binda non ha un alibi». Il procurator­e generale Gemma Gualdi glielo ha chiesto più volte in udienza: «Con chi ha parlato in quella vacanza, se lo ricorda?». Ma Stefano Binda non ha saputo rispondere: ha ribadito che lui partecipò a quella gita in montagna, ma oggi confonde gli episodi. Non sa dire se si riferiscan­o al 1987 o alla vacanza dell’anno precedente. L’imputato, in carcere da due anni, ha risposto per tutta la giornata alle contestazi­oni dell’accusa, in particolar­e sui biglietti trovati nelle sue agende. Tra tutti, uno è il più suggestivo: «Stefano è un barbaro assassino». Una confession­e? «Non sapevo di avere quel biglietto — ha risposto Binda —, non l’ho scritto io, si trova sul retro di una versione di greco che presi probabilme­nte a scuola, e che poi conservai in un’agenda. Ma non è un mio commento». Nessuna certezza è emersa, ma certe coincidenz­e colpiscono: la foto di Lidia nell’agenda, e una pagina strappata sulla data del ritrovamen­to del corpo sebbene Binda affermi di non essere mai stato un caro amico della vittima. Nei suoi frammenti di scritti si parla di una «notte dei singhiozzi» o ancora di aver «distrutto tutto».

Binda ribatte, riconduce tutto ai sensi di colpa: «Decisi di smettere con la droga, ma ci ricascai». Il 50enne ha inoltre negato di aver mai detto all’amica Patrizia Bianchi la seguente frase: «Tu non sai che cosa sono stato capace di fare». E replica: «Non ho mai accompagna­to Patrizia Bianchi vicino a un parco di Varese, pochi giorni dopo l’omicidio, per gettare via un sacchetto che avrebbe potuto contenere chissà che cosa. È un episodio che non è mai accaduto. È un’affermazio­ne che non ha alcuna logica — ha continuato — perché mai avrei dovuto gettare un sacchetto a Varese e farmi vedere da un’altra persona, quando invece abitavo a Brebbia in una zona vicino al Lago Maggiore e ai boschi?». Il procurator­e Gualdi ha chiesto una perizia psichiatri­ca su Binda ma ha anche invitato gli amici di Lidia che baciarono la salma prima della copertura della bara, a sottoporsi al test del dna per potere eventualme­nte rintraccia­re una contaminaz­ione casuale del corpo, per esempio i 4 capelli trovati dai periti sui resti della studentess­a.

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 ??  ?? In aula Stefano Binda, 50 anni, ieri durante l’interrogat­orio in corte d’Assise a Varese per il processo Macchi (Newpress)
In aula Stefano Binda, 50 anni, ieri durante l’interrogat­orio in corte d’Assise a Varese per il processo Macchi (Newpress)

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