Corriere della Sera (Bergamo)

In quelle lacrime del patron la dignità rimasta nel mondo del calcio

- Davide Ferrario

La Storia, anche quella sportiva, è fatta di gruppi e moltitudin­i, come gli undici in campo giovedì a Dortmund e i cinquemila (o seimila…) fantastici tifosi sugli spalti. Ma è fatta anche di individui; e di gesti che, nella loro unicità, raccontano una vita in un attimo. Ce ne sono stati due, nel Westfalens­tadion, di questi gesti.

Il primo all’inizio della partita, quando Antonio Percassi è andato sotto la curva dei nostri a salutarli. E a piangere come un ragazzino, emozionato da quello che aveva di fronte e di cui, essendone responsabi­le, aveva capito la grandezza. Non sono un agiografo di Percassi, che in un altro contesto verrebbe descritto come un imprendito­re ricco e abile. Ma sotto la curva, in quel momento, c’era solo un uomo di sessantaqu­attro anni commosso da quello che la vita gli aveva offerto in sorte. Percassi è diverso dagli altri presidenti di serie A: non ha gli occhi a mandorla, non veste firmato come Lotito, non ha l’aria trendy degli Agnelli, non fa il buffone come Ferrero.

Quell’uomo in un indistinto giubbotto nero, con la barba lunga e gli occhi umidi, era — in tutto e per tutto — un bergamasco qualunque. E, da regista, non posso non considerar­e come si svolge la sequenza del video che lo immortala. Percassi si incammina sotto la curva, saluta, viene a sua volta accolto con ovazioni, torna indietro, piange. Solo a quel punto si accorge che qualcuno lo sta filmando: e ha un moto di vergogna, di uno che non vorrebbe farsi vedere così. E lì capisci cosa Antonio Percassi possiede rispetto a tanti altri che bazzicano il dorato mondo del calcio: la dignità.

Poi, c’è l’immagine di Gasperini al gol del pareggio di Ilicic. Guardate cosa succede: mentre tutti saltano in aria catapultan­dosi in campo, lui

Grazie, Percassi e Gasperini E adesso portateci dove abbiamo capito di poter arrivare

tende le mani verso il basso e torna indietro verso la panchina, come un salmone controcorr­ente. Perché sembra non partecipar­e alla gioia collettiva, lui che con tutta evidenza è un edificator­e di gruppi compatti e motivati? Io credo che in quel momento, anche solo per un secondo, Gasperini non potesse stare altro che da solo con se stesso.

Era lo stratega che aveva accettato la sfida, che ne aveva costruito la tattica e che adesso ne vedeva il risultato compiersi come l’esatta dimostrazi­one di un teorema. Sono momenti che — prima di essere condivisi — hanno bisogno della stessa solitudine nella quale vengono costruiti. Riguardate­vi uno dei più bei film di sport che siano mai stati girati: Ogni maledetta domenica di Oliver Stone. Non solo per la famosa sequenza del discorso di Al Pacino nello spogliatoi­o prima della partita, che altro non è che la versione hollywoodi­ana del credo di Gasperini. Ma anche per quell’altra immagine: mentre tutti festeggian­o la vittoria, l’allenatore se ne sta in disparte, insieme sorridente e pensoso. È felice, ma la sua felicità è diversa da quella degli altri.

Grazie, Percassi e Gasperini. E adesso portateci dove abbiamo capito di poter arrivare.

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Il gol del momentaneo vantaggio siglato da Ilicic
L’esultanza dello sloveno, autore di una doppietta a Dortmund
Il naso insanguina­to di Caldara, costretto a lasciare il terreno di gioco nella ripresa
Il muro nerazzurro nel settore ospiti...
Istantanee Il gol del momentaneo vantaggio siglato da Ilicic L’esultanza dello sloveno, autore di una doppietta a Dortmund Il naso insanguina­to di Caldara, costretto a lasciare il terreno di gioco nella ripresa Il muro nerazzurro nel settore ospiti...
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