Un triestino a Porta Venezia
Dal Giamaica alla Triennale la città creativa e policentrica di Gillo Dorfles
Non era uomo di metodi filosofici né studioso di arte antica, ma un camminatore tra le arti, un’osservatore. È evidente che un triestino così non poteva trovare nella «Grande bellezza» di Roma, bensì nell’operosa Milano della contemporaneità la città in cui vivere. A Gillo Dorfles interessavano l’arte nel suo farsi, gli artifici e i luoghi. Era, in questo, più giornalista che teorico, un curioso (nella nobile accezione settecentesca) che ha toccato tutti i luoghi della cultura milanese.
I percorsi di Dorfles sono lunghi quanto la sua vita. Iniziò in una Milano in parte scomparsa, quella della Libreria Salto e delle Gallerie Bompiani e Fiore ai tempi del Movimento Arte Concreta, con qualche visita al bar Giamaica di Brera, presso la cui accademia divenne membro onorario. Insegnò «Estetica» all’università e già a quei tempi iniziò la sua collaborazione al «Corriere della Sera» di via Solferino, che divenne una delle sue seconde case, essendo la prima l’abitazione di piazza Lavater, zona Porta Venezia. Anche in questo caso non un’antica dimora bensì un signorile palazzo borghese, con arredi di design e quadri del Novecento alle pareti. La sua abitazione divenne un piccolo cenacolo di amici che lo visitavano, alcuni non privi di sentimenti limacciosi da quando il suo cognome non era più quello di uno studioso ma un brand sciamanico. L’altra sua casa milanese fu la Triennale, dove l’Associazione per il design industriale gli conferì il Compasso d’oro (a Dorfles è stato assegnato anche l’Ambrogino d’oro) e dove si è svolta, la primavera scorsa, la sua ultima sua grande uscita pubblica: si esibì al pianoforte ricordando pezzi a memoria. L’ex assessotemporanea re Finazzer Flory (che realizzò una mostra su Dorfles pittore a Palazzo Reale) ricordò un giorno le comuni frequentazioni alla Libreria Rizzoli in Galleria.
Faccio un torto citando solo alcuni spazi espositivi e teatri perché — e questo gli fa onore — Dorfles andava a visitare e ascoltare gli altri infaticabilmente. Forse il suo museo preferito era un non museo, cioè il Pac (Padiglione d’arte con- di via Palestro), sebbene il suo territorio n.1 di esplorazione siano state le Biennali di Venezia.
Amava la musica, specialmente contemporanea, da Luigi Nono in poi, genere che qui ha vissuto grandi stagioni sin dai tempi della Piccola Scala e poi con Milano Musica e di Mito, iniziative alle quali è stato vicino. Presente anche alla Scala in serate che, mi pare, scegliesse con oculatezza. Pure al Piccolo Teatro e al Franco Parenti era di casa.
Tenne conferenze ovunque, dal Politecnico all’Istituto Europeo del Design e frequentò le riviste da «Ottagono» alle molte del design. Fu instancabile camminatore, sin oltre i cent’anni, ai Saloni del Mobile e al Fuori Salone di via Tortona. Il suo gusto si era consolidato ai tempi delle grandi Fiere campionarie e a fiere ed Expo rimase legato.
Sebbene non fosse privo di una certa vanità, credo che non gli piacerebbe una città inondata di targhe o sale a suo nome, per quanto anche i più moderni passino poi alla storia grazie a un rigo sui libri o a una benevola toponomastica. Ma niente arzigogoli kitsch, solo con la scusa di citare il genere da lui più sdoganato.