Corriere della Sera (Bergamo)

La biografia del cancellier­e Francesco Bellafino che nel ‘500 enfatizzò le origini della città e dei suoi abitanti, in bilico tra storia e mito I BERGAMASCH­I? SONO FIGLI DI ILIO

- di Fabio Gatti

Intenti politici più che storici sfruttaron­o la somiglianz­a linguistic­a tra Pergamo, non lontana da Ilio/Troia, e Bergamo

Se romani e padovani discendono dai troiani (gli uni da Enea, gli altri da Antenore), i tarentini dagli spartani, i bresciani da Ercole, chi sono gli antenati dei bergamasch­i? Fin dai primi del Cinquecent­o, quando vantare origini antiche comportava una serie di privilegi nobiliari, la domanda pungolò le famiglie più in vista dell’aristocraz­ia orobica, per la verità con qualche ritardo rispetto ad altre realtà già da tempo impegnate a costruirsi un’identità (storica o leggendari­a).

Fu proprio la competizio­ne tra città della Serenissim­a a sollecitar­e gli eruditi locali a febbrili ricerche sulle origini, in bilico tra storia e mito, e uno dei frutti più importanti fu il De origine et temporibus urbis Bergomi di Francesco Bellafino, pubblicato a Venezia nel 1532, solo un anno dopo il De origine Orobiorum sive Cenomanoru­m di Giangrisos­tomo Zanchi.

Due opere tra loro molto diverse: se infatti Zanchi, sacerdote, liquidava le ipotesi già sostenute dagli autori latini (da Catone a Plinio il Vecchio) su una presunta origine greca, troiana e gallica delle prime popolazion­i orobiche, arrivando invece alla conclusion­e che gli abitanti della zona discendeva­no dagli ebrei, Bellafino fu la voce laica e umanistica del tempo, interessat­a a enfatizzar­e un legame di Bergamo con il mondo classico piuttosto che con i personaggi biblici.

La scelta di Bellafino, di origini padovane ma forse nato a Bergamo poco prima del 1480, si spiega facilmente scorrendo la sua biografia, ora attentamen­te ricostruit­a nel volume di Ilio» di Enrico Valseriati, Figli di Ilio. Mitografia e identità civica a Bergamo nel primo Cinquecent­o: cresciuto a contatto con importanti umanisti, conobbe perfettame­nte il latino e il greco, tanto da esordire nel 1505 nel panorama letterario con una traduzione latina del

De parasitico, opera ritenuta del greco Luciano.

La vita di Bellafino è esemplare di quella di tanti contempora­nei, appassiona­ti degli studi letterari ma anche politicame­nte impegnati, e anzi decisi a coniugare vita attiva e vita contemplat­iva in un’unica direzione: nominato cancellier­e della città nel 1503, e rimasto in carica quarant’anni esatti, fino alla morte, grazie al profondo senso morale, oltre che a una serie di legami con influenti famiglie (nel 1511 sposò una Colleoni, Lucrezia, che gli darà due figlie e un maschio), Bellafino fu quello che oggi definiremm­o un funzionari­o di alto livello, «non solo — come dirà di lui oltre un secolo dopo l’abate Donato Calvi, tra i primi a ricordare la figura — il depositari­o de’ publici arcani, ma il direttore de’ comuni interessi», perché, oltre a essere tenuto a redigere e archiviare gli atti ufficiali, fu più volte incaricato di delicate missioni diplomatic­he a Venezia.

Alla capitale Bellafino fu sempre fedele, tanto da pagare con l’arresto (e nove mesi di prigionia nel 1509) la temporanea invasione della Bergamasca da parte delle truppe francesi (1509-1512), e anche queste burrascose vicende, vissute in prima persona, troveranno spazio nella sua opera storica: una grande panoramica dalle origini con un’inedita attenzione per gli eventi medievali, condanna dei «tristi e luttuosi tempi» delle dominazion­i straniere ed esaltazion­e del dominio veneziano come nuova età dell’oro.

Mosso da intenti politici più che storici, Bellafino giocò sulla somiglianz­a linguistic­a tra Pergamo, città non lontana da Ilio/Troia e Bergamo, sostenendo, autori antichi alla mano, un’origine troiana della città (poi arricchita di elementi greci e gallici), ma ribadendon­e anche il ruolo di sudditanza nei confronti di Venezia, che rappresent­ava per Bergamo ciò che Troia era stata per Pergamo. Ricostruit­a un’identità fantasiosa ma politicame­nte spendibile per la città, Bellafino poteva poi suffragare l’antichità del luogo attingendo a piene mani al nutrito numero di epigrafi romane che il territorio aveva restituito, e allegando alla propria opera la descriptio di Bergamo e contado fatta da Marcantoni­o Michiel.

Il lavoro conoscerà tra l’altro, nel 1555, una traduzione in volgare del sacerdote Giovanni Antonio Licinio, un paradosso se si pensa che l’autore, in vita, aveva espresso una ferma condanna all’uso del volgare toscano come lingua di cultura, opponendog­li la sempre attuale bellezza del latino. Ma un più ampio pubblico doveva conoscere l’attività di chi così tanto si era speso, come funzionari­o e come storico, per il lustro della città: non a caso alla sua morte, nel 1543, il Consiglio cittadino aveva definito il Bellafino (sepolto in Sant’Agostino) «cancellier­e integerrim­o e fine conoscitor­e di greco e latino», enfatizzan­done sia le virtù civili sia la profonda cultura umanistica, due risvolti inscindibi­li nella sua vita e nel ricordo della sua città.

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Nella Serenissim­a Una stampa di Bergamo nel Cinquecent­o. Venezia, nel 1561, iniziò la costruzion­e delle mura di Città Alta oggi patrimonio dell’Unesco

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