Corriere della Sera (Bergamo)

Al film Meeting l’amore impossibil­e di Adrian Sitaru

- Daniela Morandi © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Il regista rumeno Andrian Sitaru ( foto) spesso lavora senza fondi e in modo indipenden­te. Inizia un film senza scrivere la sceneggiat­ura. Fa interagire gli attori. Li osserva, poi la storia prende forma. Sta succedendo ora con un film che ha in mente, ma non svela. È successo l’anno scorso con «Ilegitim», in uscita il 22 marzo nelle sale italiane e all’auditorium di piazza della Libertà, come un altro suo film, «Fixeur». Di entrambi la distribuzi­one è firmata Lab 80. Al centro di ogni lungometra­ggio Sitaru, oggi alle 19 al bookshop del Bergamo Film Meeting per l’aperitivo con l’autore, mostra delle costanti: Adrian Titeni, il volto feticcio, le relazioni interperso­nali, la famiglia, dilemmi morali. «Non so spiegarmi il perché, forse sta nella natura umana delle cose», dice il regista, che in «Ilegitim» tocca un argomento scottante: l’incesto, unito all’aborto, proibito durante la dittatura di Ceausescu. «L’idea originaria del film era parlare di amore impossibil­e. Mi sono chiesto perché l’amore deve essere proibito — racconta —. Così ho pensato all’incesto tra i gemelli Sasha e Romeo, ispirato a Romeo e Giulietta, altro amore impossibil­e. Ma l’incesto è un pretesto per riflettere sulla pressione esercitata dalla società e dalla famiglia sugli individui, dicendo ciò che è morale e ciò che non lo è. Da qui il titolo Illegittim­o, diverso da illegale, perché indica un dilemma tra bene e male. Ma il confine tra giusto e sbagliato quale è? L’incesto non è lecito, eppure in alcuni paesi nordici stanno pensando di legalizzar­lo. È questione di punti di vista». Nel film emergono quelli del padre Victor, ginecologo che durante la dittatura denunciò alcune donne che volevano abortire, e dei figli, favorevoli alla libertà di scelta. Un conflitto generazion­ale con una voce fuori dal coro: Gilda. Benché ami il padre e i fratelli, si distingue sin dalla prima scena, tanto che nell’ultima compare seduta ai margini di una fotografia che ritrae la famiglia unita. Il regista ne evidenzia la posizione esterna alle dinamiche familiari, ma «lascio al pubblico la propria interpreta­zione», dice. E al pubblico pone anche un altro dilemma. In «Fixeur», dove un giornalist­a fa di tutto per portare a casa uno scoop sulla prostituzi­one minorile, si domanda: «Quale è il confine tra il dover raccontare e il bisogno di farlo? — chiede Sitaru —. La questione riguarda anche il mio lavoro. Da regista posso creare abusi emotivi nel nome dell’arte, come un giornalist­a in nome di un buon giornalism­o, ma in realtà è una scusa per il proprio ego. Questo ci permette di calpestare le emozioni. Mi chiedo quale sia il limite per agire con rispetto». Sitaru è tipo da interrogar­si spesso su temi esistenzia­li, che tornano nei film. «Mi chiedo perché a volte mi comporti in modo stupido nelle relazioni, in famiglia, cosa è morale e cosa no, perché l’umanità si comporta in modo disumano, perché non c’è comunicazi­one. Faccio film perché non trovo risposte e le ricerco nella reazione dello spettatore».

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