Richardson: «Il mio sax per i diritti sociali»
Bergamo jazz, concerti al via con il saxofonista: suono la lotta sociale
Ha iniziato a suonare il sax a 13 anni e trascorso la gioventù a mixare su nastro gli Lp Motown dei suoi genitori. Logan Richardson, che aprirà il Bergamo Jazz domani sera al Sociale, è nato a Kansas City, come Charlie Parker, nel 1980, e come lui si è fatto le ossa nei locali tra la Diciottesima e Vein, nel Jazz District. Ma si è anche laureato alla New School, la più eclettica delle accademie musicali di New York; ha suonato musica classica e rhythm ‘n’ blues; collaborato con calibri da novanta delle generazioni precedenti — Joe Chambers, Jason Moran Billy Hart, Butch Morris, Pat Metheny — e fondato il Next, un collettivo di giovani stelle. Chitarre distorte, dense stratificazioni sonore, dinamiche rock, ma anche profonda liricità; si trova di tutto nel disco d’imminente uscita, aperto da una traccia vocale di Donny Hathaway che è un vero e proprio manifesto, come quelli di una volta, e un appello alla gente di colore: lo studio quale unica via verso la libertà e la realizzazione di sé stessi.
Richardson, come definirebbe la sua musica?
«Non la definisco. Al contrario, è la musica che definisce me, che mi trasforma continuamente. Qualcuno la chiama “urbana”, ma quando parlo di jazz io mi riferisco sempre alla Black American Music — di ogni forma e stile — nata negli Stati Uniti nel contesto della lotta sociale afroamericana, alla fine del regime schiavistico delle piantagioni. Una lotta per i diritti che ancora oggi negli States coinvolge tutte le persone di colore».
Che cosa significa oggi essere un musicista di jazz?
«Fare il jazzista di professione significa innanzitutto essere in grado di sviluppare un contesto espressivo adeguato a questo nuovo millennio; un veicolo con cui l’artista possa amministrare un proprio modello di business — motore del veicolo — a vantaggio della creatività e dell’arte, carrozzeria del veicolo».
Come compone e come lavora coi suoi musicisti?
«Compongo sia al sax che al pianoforte, dipende da quello che cerco e voglio ottenere. Ai musicisti del mio gruppo do libertà assoluta e voglio che contribuiscano personalmente portando la propria visione dell’arte e della vita. Il mio gruppo non sono persone che suonano musica; il mio gruppo è la musica».
«Blues People», suo ultimo lavoro discografico, echeggia il titolo del celebre saggio socio-musicologico di Amiri Baraka.
«Nasce tutto da lì. È un testo che ha cambiato profondamente la mia vita e ha indirizzato la mia riflessione storica. Ho capito che il futuro lo viviamo ogni giorno e, tuttavia, non è molto diverso dal passato: cambia solo la prospettiva. Arte e musica possono essere espressioni politiche fortissime e tutto questo disco è una dichiarazione politica, anche se non apertamente dichiarata. Com’è proprio della tradizione centenaria di tutta la Black American Music, e dei cento e più anni che ancora ha davanti a sé».