Dietro Allegri
«Panchina d’oro» Gasperini vincitore morale
Faccio il regista di cinema e da sempre mi capita di partecipare a festival in cui si premia il «miglior attore». Anche quando è capitato che vincesse l’interprete di un mio film, non ho potuto fare a meno di chiedermi: «Ma chi è che premiano davvero, l’attore o il personaggio?». Seguite il ragionamento. Caso A: hai un personaggio eccellente, scritto benissimo, protagonista di un film riuscito. Caso B: hai un personaggio scritto male, con le battute sbagliate, in un film di scarso successo. Li interpreta lo stesso attore. Nel primo ha tutti i vantaggi, nel secondo solo handicap. È più bravo nel primo caso o nel secondo? E a quale film daranno il premio? A quello che era
Il confronto Facile fare una bella figura e vincere quando comandi la corazzata Juventus
più facile da interpretare o a quello più sfigato? Ovvio, al primo. Anche se a pensarci bene dovrebbero darlo al secondo.
È quello che mi viene in mente leggendo che il nostro vate e profeta Giampiero Gasperini è arrivato secondo dietro Allegri nel referendum per la «Panchina d’oro» 2018. Tradotto: è prevedibile vincere se comandi una corazzata come la Juventus. Ma, senza minimizzare gli obiettivi meriti di Allegri, il riconoscimento non se lo meriterebbe piuttosto l’allenatore che riesce a tirar fuori una sorta di perpetuo miracolo calcistico giocando con Freuler, Hateboer e Palomino?
Comunque sia, noi qui il migliore lo sappiamo chi è. Semmai, la domanda che serpeggia tra i tifosi è: fino a quando potrà restare a Bergamo il Gasp? È il tarlo che ci inquieta i sonni e che silenziosamente ci avvelena. E più il diretto interessato, Percassi e perfino Sartori, ci dicono che tutti lavorano all’unisono per portare avanti il sogno che ci sta facendo sballare dall’anno scorso, più nell’inconscio fa capolino la tipica sindrome bergamasca del «ghe crede mìa». Che è, a ben guardare, il meccanismo atavico della nostra gente: da una parte testarda e orgogliosa, dall’altra freddamente consapevole della propria marginalità. Traduco, di nuovo e brutalmente: se uno è bravo, perché dovrebbe restare a Bergamo? Cosa lo terrebbe qui contro le sirene che lo attraggono nel mondo con il loro irresistibile richiamo? Nello specifico: perché Gasperini dovrebbe accontentarsi di stare sempre dietro ad Allegri?
Certo, la ragione ci dice che il Gasp l’esperienza con una Grande (l’Inter) l’ha già fatta; e sappiamo come è finita. Ci dice anche che se ha sopportato per anni un presidente come Preziosi saprà ben apprezzare Antonio Percassi. Infine, che pare impossibile trovare in Italia un ambiente come il nostro, quella formidabile interazione tra squadra, società, tecnico, tifosi e città che sta trasformando Bergamo e l’Atalanta in un brand conosciuto in tutto il continente.
Ma si sa che la ragione, in faccende di calcio, non risolve tutto. Forse la risposta è: noi dobbiamo meritarci Gasperini quanto Gasperini deve meritarsi noi. All’inizio del campionato scrissi che dovevamo dimenticarci dell’anno scorso, di una stagione simile al fulmine dell’innamoramento. Un periodo indimenticabile, ma che non può durare in eterno: all’entusiasmo subentra la normalità. Ma l’Atalanta di quest’anno ha fatto diventare la «normalità» altrettanto straordinaria del fidanzamento. Adesso c’è da fare un altro passo: pensare a un futuro insieme, mettendo ciascuno aspettative e desideri in un sogno comune. Gasp può essere per l’Atalanta quello che Alex Ferguson è stato per il Manchester United. Noi lo vogliamo. Chissà se è quello che vuole lui.