Teresa Margolles Stop alla violenza
Da vedere Al Pac 14 installazioni dell’artista messicana su femminicidio e abusi: un grido di ribellione
La frequentazione degli obitori da parte degli artisti ha una lunga storia che inizia almeno con Leonardo da Vinci e nella contemporaneità vanta nomi illustri come Damien Hirst e Maurizio Cattelan. Anche la messicana Teresa Margolles, classe 1963, rappresentante del Messico alla Biennale di Venezia del 2009, si è dedicata alla dissezione di cadaveri prima di fondare, nel 1990, il collettivo artistico Semefo, acronimo del Servicio Médico Forense. Come vedremo dalle 14 installazioni in mostra al Pac gli studi e la pratica da anatomo-patologa sono stati un passaggio chiave nella sua arte concentrata sul tema della violenza, in particolare quella di genere contro le donne e le transessuali. Prima in Italia, la personale della Margolles, conclude quindi la trilogia del Pac dedicata alla riflessione sugli abusi, già declinata da Regina José Galindo e Santiago Sierra. «La Margolles è l’artista più scientifica e investigativa dei tre», spiega il curatore Diego Sileo che ha fatto dell’impegno la bandiera dello spazio di via Palestro.
Prima di trasferirsi a Madrid, cinque anni fa, la Margolles ha vissuto e lavorato a Ciudad Juárez, città messicana di confine tristemente celebre per le centinaia di femminicidi rimasti impuniti. «È l’epicentro del dolore, quello da dove è salito più alto il grido, ma la mostra prende le mosse dal Messico per arrivare a riflettere sul problema globale della violenza sulle donne, la rabbia e il coraggio di ribellarsi», spiega l’artista. Una delle opere più forti è nel ballatoio del Pac avvolto nel fumo di «Vaporización», ottenuto bruciando frammenti di lenzuola con cui sono state coperte donne decedute per morte violenta nel nostro Bel Paese. «Vedremo come reagirà il pubblico: se sarà pronto a inalare questo fumo e ad entrare in contatto fisico con la morte o se si fermerà sulla soglia», spiega il curatore Diego Sileo.
Anche «Pistas de baile» ci obbliga ad aprire gli occhi su quanto Messico ci sia a casa nostra. Voci di transessuali italiane, infatti, mettono in fila le testimonianze di violenze subite sia in famiglia che in strada con i clienti. Un triste percorso di stupri, botte, minacce: non a Ciudad Juárez, ma qui a Milano.
Nel grande spazio a ridosso della vetrata coperta da una pellicola bianca, per dare l’idea di un obitorio, è invece tirata una lunga corda di 30 metri, spezzata, legata e insanguinata. Si tratta dell’opera «57 corpi» costruita annodando l’uno con l’altro i frammenti di spago utilizzato a Ciudad Juárez per cucire i cadaveri delle donne che ar- rivano mutilate. «Per loro non viene nemmeno usato il filo chirurgico, ma il più economico spago», spiega Teresa che ha rimesso insieme i pezzetti di scarto utilizzati per cucire 57 donne.
Infine il titolo. «Ora basta, figli di puttana» è il messaggio che i trafficanti di droga incidono sui corpi delle fidanzate o mogli delle bande rivali per minacciarsi a vicenda. «È una frase legata al contesto messicano, ma ci auguriamo che i visitatori italiani la facciano propria per dire: ora basta con i femminicidi», spiega Sileo. All’uscita, ognuno potrà prendere il manifesto con la frase, lo stesso che vedremo affisso in città.
❞ Il curatore Vedremo come reagirà il pubblico: se sarà pronto a entrare in contatto fisico con la morte