I giochi senza badare al colore della pelle
Scuola De Amicis, classe quinta. I volti dei bambini sono attenti, lo sguardo un po’ intimidito. C’è chi è nato all’estero, ma non è mai tornato a «casa». «Andrò in Cina tra poco per la prima volta. Da quando ho tre anni, parlo con i miei nonni tramite le videochiamate — dice Qi Hao, che ha 11 anni, è in Italia da quando ne aveva sei e in questa scuola dall’anno scorso —. Non vedo l’ora di abbracciarli. Ah, e poi voglio vedere il fiume Giallo. I miei genitori me ne parlano sempre». «Mi piace qui — esclama Gherry —. In India, se non fai il bravo, ti mettono nella posizione del gallo. Rannicchiato, con le mani dietro le ginocchia, per dieci minuti». Sorride. «Qui le maestre sono meno severe». E sulle difficoltà linguistiche, spiega: «Non è stato difficile imparare l’italiano, perché c’erano tanti amici che aiutavano». Nahian è nata in Italia, i suoi genitori vengono dal Bangladesh, e racconta che in seconda e in terza ha aiutato altri due bambini del suo Paese a imparare l’italiano. Ma è più bello vivere a Bergamo o in Bangladesh? «In Bangladesh c’è più spazio per giocare, più natura», è la risposta. Se si chiede a Pietro, italiano nato a Bergamo, che cosa lo porta a fare amicizia con i compagni, se il colore della pelle cambi qualcosa, lui allarga le braccia e risponde, come se fosse la cosa più ovvia del mondo: «Ma è chiaro. Faccio amicizia con un bambino se gli piace giocare a quello che piace a me». C’è altro, forse? (gi.la.)