I personaggi allo specchio di Palandri
Il romanzo di Enrico Palandri La costruzione dell’identità tra storia, famiglia e finzione
In copertina un albero, semplice. Di quelli che potrebbe disegnare su un foglio a quadretti un bambino, magari il nipote di Gregorio Licudis, che a quel nipote avrebbe voluto dare il proprio nome. Perché, «figlio, ricordami in tuo figlio», dirà il nonno al primogenito Giorgio, che a sua volta sa di essere un poco anche suo padre (il tronco da cui tutto prende vita). In «L’inventore di se stesso» di Enrico Palandri, tra i libri finalisti del Premio Nazionale Narrativa Bergamo, l’invenzione e la riflessione sul rapporto padri e figli, sul chi siamo e da dove veniamo, è la linfa vitale di un albero genealogico e delle idee che affonda le radici in una saga familiare, divisa tra storia, Veneto operoso e finzione.
È solo Gregorio Licudis «l’inventore di se stesso» o chiunque potrebbe rivedersi in quella sagoma con cappello che funge da tronco dell’albero stilizzato in copertina?
«È ognuno di noi. Nei romanzi ogni personaggio è come uno specchio che si offre al lettore, che nella finzione può rivedersi, riconoscersi, riaggiustarsi, rivedendo dei propri caratteri e imparando a farsi un autoritratto attraverso un autore. La ricerca delle radici che propongo parla a chiunque senta forte questo tema e il rapporto con il passato».
In questo racconto sull’identità, quanto è importante il nome che si porta nella vita?
«È molto importante, ma da romanziere dico anche che è altrettanto importante rendersi conto che è una finzione: in un nome ci entriamo, lo costruiamo. Ci sono state epoche in cui non si portava il cognome. A volte il nome si perde o si acquista, come nel matrimonio per una donna, si cambia se considerato assurdo. A un certo punto diventa però una rivelazione. Nella cabala si predice il destino attraverso il nome».
Scrive: «Mio padre voleva costruire per me e i miei figli un senso di noi stessi». Quanto il passato influisce sul nostro presente e sulle generazioni future?
«A volte le cose presenti si spiegano pensando a qualcosa che sembrava remoto invece ritorna attuale e chiarisce quanto ci si sta attorno. Le motivazioni di certe scelte si chiariscono in un dialogo con il presente e ricordando quanto è alle nostre spalle. Certe volte si scherza dicendo: “Mio padre non avrebbe detto così …”, ma prendere le distanze dal passato è un modo per metabolizzarlo e attualizzarlo».
Il figlio di Gregorio tiene la lettera in cui il padre gli svela le origini nobiliari nella giacca, da un taschino all’altro. Perché?
«È come si fa con la carta di identità. Poi volevo dare alla lettera un che di talismano, che desse una veste odo romanzesca a un documento burocratico».
Tra le frasi ricorrenti quella detta dalla moglie di Gregorio, Sylvia: «Le famiglie sono tutte insopportabili». Lei lo crede?
«No (ride, ndr). Ma forse sono insopportabili perché sono rapporti che dobbiamo portarci dietro. Inoltre, è insopportabile che la famiglia mantenga viva la voce dell’infanzia, che da adulti cerchiamo di sopprimere, volendo darne accesso solo a chi scegliamo, perché in essa c’è il gioco, ma anche la nostra vulnerabilità».
Nel suo modo di scrivere si rintraccia la malinconia.
«È il modo leopardiano con cui sento le cose, la loro caducità e imperfezione, che è l’unica conoscenza che abbiamo. Ma al suo interno c’è anche dell’allegria. Non so se sia malinconia, in certi momenti è addirittura disperazione. Ci sono tante emozioni».
Per la serie, «tutto è vero e anche il contrario di tutto è vero», come scrive.
«Se dovessi parlare della mia vita sarei reticente, invece costruisco delle finzioni letterarie attraverso cui dico cose, anche non personali. Anzi, il romanzo inizia con la parte impersonale. Mentre scrivo tiro via dei frammenti, come fossi uno scultore. Quello che scarto è quanto assomiglia al mio io».
Dove si rispecchiano i tratti biografici?
«Come Gregorio anch’io sono un professore universitario, anche se per quel personaggio ho pensato direttamente a mio padre. Ma cosa è biografico? A volte le cose che accadono vicino a noi ci riguardano e interessano di più. Per esempio, la scena dell’innamoramento tra Gregorio e Sylvia nel giardino ripropone l’episodio di quando Sylvia Plath morse la guancia di Ted Huges, che lessi in alcune riviste».
Il lascito di Gregorio è «saper trovare l’ubi consistam, ma anche lasciare andare». È l’eredità dei nostri padri?
L’amore paterno e materno è la forma suprema dell’amore, perché lascia andare. Ma allo stesso tempo c’è un desiderio di ritrovarsi e ricordarsi nei nipoti, saltando la discendenza diretta. Dalle stesse radici nascono gli alberi che vogliono.
Ogni personaggio è come uno specchio offerto al lettore, che attraverso l’autore può farsi un autoritratto