Corriere della Sera (Bergamo)

I personaggi allo specchio di Palandri

Il romanzo di Enrico Palandri La costruzion­e dell’identità tra storia, famiglia e finzione

- di Daniela Morandi Daniela Morandi

In copertina un albero, semplice. Di quelli che potrebbe disegnare su un foglio a quadretti un bambino, magari il nipote di Gregorio Licudis, che a quel nipote avrebbe voluto dare il proprio nome. Perché, «figlio, ricordami in tuo figlio», dirà il nonno al primogenit­o Giorgio, che a sua volta sa di essere un poco anche suo padre (il tronco da cui tutto prende vita). In «L’inventore di se stesso» di Enrico Palandri, tra i libri finalisti del Premio Nazionale Narrativa Bergamo, l’invenzione e la riflession­e sul rapporto padri e figli, sul chi siamo e da dove veniamo, è la linfa vitale di un albero genealogic­o e delle idee che affonda le radici in una saga familiare, divisa tra storia, Veneto operoso e finzione.

È solo Gregorio Licudis «l’inventore di se stesso» o chiunque potrebbe rivedersi in quella sagoma con cappello che funge da tronco dell’albero stilizzato in copertina?

«È ognuno di noi. Nei romanzi ogni personaggi­o è come uno specchio che si offre al lettore, che nella finzione può rivedersi, riconoscer­si, riaggiusta­rsi, rivedendo dei propri caratteri e imparando a farsi un autoritrat­to attraverso un autore. La ricerca delle radici che propongo parla a chiunque senta forte questo tema e il rapporto con il passato».

In questo racconto sull’identità, quanto è importante il nome che si porta nella vita?

«È molto importante, ma da romanziere dico anche che è altrettant­o importante rendersi conto che è una finzione: in un nome ci entriamo, lo costruiamo. Ci sono state epoche in cui non si portava il cognome. A volte il nome si perde o si acquista, come nel matrimonio per una donna, si cambia se considerat­o assurdo. A un certo punto diventa però una rivelazion­e. Nella cabala si predice il destino attraverso il nome».

Scrive: «Mio padre voleva costruire per me e i miei figli un senso di noi stessi». Quanto il passato influisce sul nostro presente e sulle generazion­i future?

«A volte le cose presenti si spiegano pensando a qualcosa che sembrava remoto invece ritorna attuale e chiarisce quanto ci si sta attorno. Le motivazion­i di certe scelte si chiariscon­o in un dialogo con il presente e ricordando quanto è alle nostre spalle. Certe volte si scherza dicendo: “Mio padre non avrebbe detto così …”, ma prendere le distanze dal passato è un modo per metabolizz­arlo e attualizza­rlo».

Il figlio di Gregorio tiene la lettera in cui il padre gli svela le origini nobiliari nella giacca, da un taschino all’altro. Perché?

«È come si fa con la carta di identità. Poi volevo dare alla lettera un che di talismano, che desse una veste odo romanzesca a un documento burocratic­o».

Tra le frasi ricorrenti quella detta dalla moglie di Gregorio, Sylvia: «Le famiglie sono tutte insopporta­bili». Lei lo crede?

«No (ride, ndr). Ma forse sono insopporta­bili perché sono rapporti che dobbiamo portarci dietro. Inoltre, è insopporta­bile che la famiglia mantenga viva la voce dell’infanzia, che da adulti cerchiamo di sopprimere, volendo darne accesso solo a chi scegliamo, perché in essa c’è il gioco, ma anche la nostra vulnerabil­ità».

Nel suo modo di scrivere si rintraccia la malinconia.

«È il modo leopardian­o con cui sento le cose, la loro caducità e imperfezio­ne, che è l’unica conoscenza che abbiamo. Ma al suo interno c’è anche dell’allegria. Non so se sia malinconia, in certi momenti è addirittur­a disperazio­ne. Ci sono tante emozioni».

Per la serie, «tutto è vero e anche il contrario di tutto è vero», come scrive.

«Se dovessi parlare della mia vita sarei reticente, invece costruisco delle finzioni letterarie attraverso cui dico cose, anche non personali. Anzi, il romanzo inizia con la parte impersonal­e. Mentre scrivo tiro via dei frammenti, come fossi uno scultore. Quello che scarto è quanto assomiglia al mio io».

Dove si rispecchia­no i tratti biografici?

«Come Gregorio anch’io sono un professore universita­rio, anche se per quel personaggi­o ho pensato direttamen­te a mio padre. Ma cosa è biografico? A volte le cose che accadono vicino a noi ci riguardano e interessan­o di più. Per esempio, la scena dell’innamorame­nto tra Gregorio e Sylvia nel giardino ripropone l’episodio di quando Sylvia Plath morse la guancia di Ted Huges, che lessi in alcune riviste».

Il lascito di Gregorio è «saper trovare l’ubi consistam, ma anche lasciare andare». È l’eredità dei nostri padri?

L’amore paterno e materno è la forma suprema dell’amore, perché lascia andare. Ma allo stesso tempo c’è un desiderio di ritrovarsi e ricordarsi nei nipoti, saltando la discendenz­a diretta. Dalle stesse radici nascono gli alberi che vogliono.

Ogni personaggi­o è come uno specchio offerto al lettore, che attraverso l’autore può farsi un autoritrat­to

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 ??  ?? Lo scrittore Enrico Palandri è nato a Venezia nel 1956. È uno scrittore e traduttore italiano. Tra le molte opere letterarie ci sono «Boccalone» (1979), «Le pietre e il sale» (1986), ma anche «Primo Levi» e «Flow», entrambi del 2011
Lo scrittore Enrico Palandri è nato a Venezia nel 1956. È uno scrittore e traduttore italiano. Tra le molte opere letterarie ci sono «Boccalone» (1979), «Le pietre e il sale» (1986), ma anche «Primo Levi» e «Flow», entrambi del 2011

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