Il gelo e il silenzio dei familiari «Non collaborano»
Carlo Novembrini, a Bergamo era arrivato per scontare un residuo di pena in carcere. Nel passato aveva anche condanne per il 416 bis, associazione di stampo mafioso. Da via Gleno era uscito nel 1999 e in Bergamasca era rimasto. Si era radicato nella Bassa. Non solo lui, ma anche il fratello Maurizio in carcere per averlo ucciso, e un terzo fratello. Sul filo rosso che collega Treviglio e dintorni con Gela, la loro città di origine, i carabinieri vogliono vederci chiaro. Anche per il comportamento dei loro familiari interrogati. Il comandante Paolo Storoni: «Colpisce la freddezza e lo stato di accettazione di quanto successo. Da loro zero collaborazione».
Tra Gela e Treviglio in linea d’aria sono 1.017 chilometri, ma una parte della famiglia Novembrini quasi vent’anni fa iniziò ad accorciare le distanze. Con il tempo si è radicata, secondo le carte giudiziarie ha lasciato nel passato l’affiliazione al clan Madonia, era rimasta sotto traccia fino all’omicidio tra fratelli di mercoledì sera, anche se monitorata dai carabinieri proprio per quel passato.
Carlo Novembrini, vittima del delitto di Caravaggio, arrivò a Bergamo non per scelta. Condannato anche per 416 bis, associazione di stampo mafioso, nel carcere di via Gleno scontò un residuo pena. Una volta uscito, nel luglio 1999, non se ne andò. Si stabilì nella Bassa Bergamasca, con una compagna ebbe un figlio che ha 27 anni e con la seconda due bambine. Ora conviveva con Maria Rosa Fortini, morta con lui sotto i colpi di pistola del fratello Maurizio Novembrini, 44 anni, anche lui in pianta stabile nella Bassa, a Treviglio. Ha precedenti per droga, furto, ricettazione, niente 416 bis, ma il contesto familiare «è affiliato al clan Madonia», è il profilo tracciato dal comandante provinciale dei carabinieri, Paolo Storoni. L’uno e l’altro hanno anche un passato di misure di prevenzione. Il maggiore, un divieto di soggiorno al sud nel 1991 e un obbligo di soggiorno a Bergamo revocato nel
2000. Poi nient’altro, salvo qualche guaio da udienza del giudice di pace come minacce, ingiurie, alimenti non pagati.
L’altro era stato sottoposto alla sorveglianza speciale, revocata a fine 2007.
Nella Bassa c’è anche un terzo fratello che ha 48 anni e qualche piccolo precedente, ma allo stato non ha nulla a che fare con questa faccenda. Tra fratelli e sorelle sono otto in tutto. Due settimane fa dalla Sicilia era arrivata Ornella, 49 anni, la donna ripresa nel video della sparatoria. Era salita per cercare lavoro, è la sua versione, al sud ha un figlio di 27 anni in carcere per reati contro il patrimonio.
I carabinieri vogliono riavvolgere il filo rosso di mille chilometri per capire se in qualche modo possa aiutare a chiarire il movente dell’omicidio. La Sicilia è lontana, ma è rimasta in famiglia. «Che cazzo fai qui?», mercoledì sera, Carlo Novembrini l’ha detto in dialetto al fratello spuntato nella sala giochi. Se da un lato, nelle carte giudiziarie, l’affiliazione al clan appartiene al passato, dall’altro, «sta emergendo uno spaccato interessante», è l’analisi di Storoni. Per approfondirlo, le pistole sono state inviate al Ris. «Ci interessa conoscere l’area geografica di provenienza, se locale o se del sud, la Sicilia, vista l’appartenenza della famiglia al clan», conferma il comandante. Sono due, con matricola abrasa. La calibro 7x21 trovata nella borsa dell’assassino e la 7,62 slava rinvenuta a casa della vittima. Due fratelli con un tenore di vita modesto (uno disoccupato e l’altro operaio edile) ma assidui frequentatori della sala slot. Una contraddizione a cui Storoni, in un discorso più generico, dà una «chiave di lettura»: «L’esperienza mi insegna che non sempre il mafioso è quello della villa del Padrino. Può vivere anche in condizioni più modeste, perché ha più appagamento dall’autorevolezza nel gruppo che dalla ricchezza».