Corriere della Sera (Bergamo)

«Atalantini e torinisti uniti dal Mondo»

Un atalantino e due granata di fronte al sorriso di Emiliano al cimitero. Senza piangere

- Davide Ferrario

A Pasqua, gli impegni con mogli separate e famiglie in carica ci avevano impedito di andare ai funerali. Abbiamo dovuto aspettare una giornata libera e così adesso eccoci qui, sulla Torino-Piacenza, diretti a Rivolta d’Adda, per andare a trovare Emiliano Mondonico. Siamo io, bergamasco e atalantino; Vincenzo detto «Cencio», e Enzo, torinesi e granata da sempre. L’ultimo scherzo che ho fatto a Cencio è stato di riempirgli la fiancata dell’auto con le figurine dell’Atalanta prese all’Esselunga. Enzo, invece, fa l’idraulico: il che spiega perché la bandiera del Toro garrisce sulla mia caldaia (si fa per dire, sta in cantina…). Vietato toglierla, pena sospension­e dell’assistenza. Sì, lo so, ci comportiam­o come ragazzini anche se siamo ampiamente «over». Ma il calcio serve anche a quello, come una tregua da una inevitabil­e maturità.

Quando abbiamo saputo

Il ritorno Nessuno fa più discorsi nostalgici: come se fossimo andati a trovare un amico

❞ L’amico Cencio tira fuori pane, salame e birra. “Penso che non gli dispiacere­bbe”, dice. Così torinisti e atalantini si dividono pane e storie di calcio

che Mondonico non c’era più ci siamo rimasti male. Ciascuno, su sponde diverse, aveva un ricordo importante legato al Mondo: un pezzo di vita in cui — non ho paura a usare queste parole — siamo stati felici. Per essere poi subito riportati alla realtà dalle sconfitte seguite a quei momenti di gioia: Atalanta e Torino in questo si assomiglia­no, sono squadre di popolo che del popolo hanno la saggezza, la cui materia è molto spesso fatta di sfiga. In questo senso, Emiliano Mondonico è stato l’allenatore perfetto per entrambe. Verrebbe da chiedersi perché le due tifoserie, tanto simili, siano invece così fieramente ostili: i vecchi tifosi ti diranno che c’è una vecchia questione aperta dal 1977. Ma sono passati quarant’anni e perfino nella Locride le faide si chiudono prima.

Comunque, pur sfottendoc­i come da copione, noi tre siaMa, mo amici e non c’è stato da discutere sulla decisione di andare. Anzi, è perfino meglio andare oggi, da soli, lontano dalle emozioni del funerale; oggi, che finalmente è primavera e l’erba sulla pianura, dopo le lunghe piogge, è bella di un verde da far male agli occhi. In auto ci si scambiano ricordi su Mondonico. Enzo, che ha un’attività collateral­e di commercio di gadget ultrà su E-Bay, è il più informato su aneddoti, episodi, fatti curiosi. Ricorda un Toro-Atalanta «combinato» sullo 0-0 per mutuo interesse di classifica, e di come, arrampicat­o su una cancellata, avesse inveito proprio contro il Mondo per l’evidente biscotto. Al che l’Emiliano l’aveva guardato di sotto in su, scrollando le spalle, con un sorriso furbo dei suoi, chiedendo scusa e insieme prendendol­o in giro.

Intorno a Milano la pianura si affolla di capannoni, stabilimen­ti, depositi di container. magicament­e, entrando a Rivolta tutto cambia: sembra di stare in un posto in cui il tempo scorre diverso. Vedo una scena che non vedevo da anni: davanti al cimitero passa un camion scassato, l’autista rallenta e si fa il segno della croce.

Fuori, ci sono ancora i necrologi per Mondonico. Dentro, solo due o tre persone. Da Bergamo ci hanno raggiunto i due Andrea, amici nerazzurri purosangue. Insieme cerchiamo la tomba e non ci vuole molto a trovarla, il camposanto è piccolo e la cappella la si vede subito: è l’unica con i fiori anche di fuori. È tutto umile e dimesso: un muro di mattoncini rossi, piccole nicchie di famiglia. Una bella foto del Mondo sorridente sta su un tavolino con altri fiori (dietro, un adesivo col teschio degli UG, Ultrà Granata – ma nascosto, per pudore, che non si veda troppo). Ciascuno di noi lascia la sua sciarpa e arriva il momento che temevo. Già, cosa succede adesso? Quale sarà l’emozione? Come misurare il dolore sincero che abbiamo provato con il fatto che Mondonico era in fondo un estraneo, un pezzo di quel mondo illusorio, il calcio, che ergiamo come una barriera simbolica contro il male vero della vita? Insomma, cosa ci facciamo qui?

Allora succede un piccolo miracolo. Nessuno ha voglia di piangere e non ce n’è ragione: è una bellissima giornata di primavera, si sentono gli uccelli cantare, il Mondo sorride in fotografia. Enzo gli manda un bacio. Cencio tira fuori pane, salame e birra. «Penso che non gli dispiacere­bbe», dice. E così, come in un film jugoslavo, torinisti e atalantini si dividono pane e storie di calcio davanti alla tomba. Non c’è nulla di irriverent­e: arriva un signore sui settanta, piccolo e magro, e non si scandalizz­a. «Siete qui per lui?», chiede. E comincia a raccontarc­i che l’Emiliano lo conosceva da ragazzo e che quando giocavano all’oratorio lui era così bravo che non riusciva mai a portargli via la palla dai piedi. Che l’Emiliano se ne andava in giro per l’Italia a fare l’allenatore, ma che poi tornava sempre a Rivolta e che non se l’è mai tirata. E che quando segnava nel Toro, tutto il paese esultava. Poi l’omino se ne va, si è fatta ora di pranzo. Anche noi mandiamo un ultimo saluto e ci avviamo.

Sulla via del ritorno, nessuno fa più discorsi nostalgici. È come se fossimo andati a trovare un amico, come se il cerchio tra vita e morte riprendess­e il suo ciclo, con un’irresistib­ile leggerezza, fatta anche di illusioni, fantasie — e di calcio. Domenica c’è Atalanta-Toro e i due compari mi mettono facilmente in minoranza. Minacciano di farmi fare una brutta fine, o quantomeno di abbandonar­mi a un autogrill. Io li lascio dire. Sto seduto dietro e Cencio non sa che gli sto riempiendo i sedili con le figurine dell’Esselunga che mi sono rimaste. Credo che il Mondo si farebbe una risata anche su questo.

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