Corriere della Sera (Bergamo)

Se i giudici sono occupati con galli forcelli e pecore

Il processo per un gregge e quello sul gallo forcello: così la giustizia disperde risorse e tempo

- Di Giuliana Ubbiali

Due pastori condannati a pagare 30 euro per invasione di un parco. Un cacciatore condannato a 1.200 euro per aver ucciso un gallo forcello femmina. Questioni bagatellar­i che però occupano giudici e risorse: il gallo è finito in Cassazione.

Il giudice, c’è da giurarci, ha emesso la sentenza in un battibalen­o. Non c’era molto da discutere. Però un processo c’è stato, un giudice, un pubblico ministero, un cancellier­e, un avvocato hanno lavorato. Un’aula di tribunale è stata occupata, la giustizia ci ha messo tempo e risorse.

Questo, per una questione di pecore. Non è una metafora, è proprio così. Due pastori rumeni sono stati citati a giudizio perché il 25 aprile del 2014 portarono il loro gregge nei terreni dell’ex colonia elioterapi­ca di Brembate Sopra. Le pecore erano «numerose», emerge dagli atti «di indagine»: una scena di quelle diventate così rare che di questi tempi fa spesso fa il giro di Facebook come se fosse un grande evento. Allora, però, qualcuno la segnalò alla polizia locale, che andò a vedere trovando conferma. Pascolo abusivo e siccome si trattava di terreni pubblici, il reato scattò d’ufficio.

I due pastori, che probabilme­nte nel frattempo avranno girovagato chissà dove con le loro pecore, sono stati condannati.

«Non sussistono dubbi in ordine alla penale responsabi­lità degli imputati», scrive il giudice Giovanni Petillo. Roba, alla fine, da 23 righe di sentenza e, concesse le attenuanti generiche, da 30 euro di multa.

Insomma, un processo dal peso piuma. Come un altro che, nonostante sia una faccenda bagatellar­e, ha mobilitato la macchina della giustizia, quindi uomini e risorse, addirittur­a fino alla suprema

Corte di Cassazione. Sempre di animali si tratta ma qui le piume sono vere. S.B., 60 anni, di Schilpario, è andato fino al terzo grado di giudizio, per contestare il pagamento di

1.200 euro di ammenda. Nel 2013 il tribunale di Bergamo lo condannò per aver ucciso una femmina di gallo forcello, anche noto come fagiano di montagna, il 7 ottobre 2012. Era a caccia con il suo fucile, autorizzat­o, ma quell’esemplare non si poteva abbattere nel comprensor­io della Val di Scalve perché appartenen­te alla avifauna tipica alpina.

Qui viene il bello del processo. Il difensore dell’imputato ha contestato il verbale di sequestro, sostenendo che fosse nullo perché, a suo dire, la prova era stata distrutta anziché depositata nell’apposito ufficio. La prova è il corpo del reato. Non la femmina di gallo forcello abbattuta, perché quella non fu mai ritrovata. Sono le piume, determinan­ti dal punto di vista difensivo per stabilire se l’esemplare fosse davvero una femmina, quindi tutelata e non cacciabile. Inoltre, altra contestazi­one del legale, chi dice che non fosse stato il compagno di caccia a sparare dato che l’imputato era sotto il controllo di una guardia venatoria a 400 metri di distanza? Di conseguenz­a «le piume distrutte costituiva­no l’unico elemento di prova».

Nulla da fare, ha deciso la Corte. La prova è il verbale di sequestro delle piume stesse. Sarà una questione di gallo forcello, saranno anche solo due pagine di sentenza, ma la terza sezione romana ha dovuto scrivere le «consideraz­ioni di diritto» con cui ha respinto l’impugnazio­ne della sentenza da parte della difesa. Il ricorso non è fondato, ha concluso. Primo, «il giudice di merito ha rinvenuto la prova del fatto nella deposizion­e del teste che vide l’imputato sparare e abbattere l’uccello selvatico, con caduta al suolo dello stesso». Secondo, «il giudice ha considerat­o, a conferma, il rinvenimen­to da parte dei verbalizza­nti delle piume del colore tipico di un esemplare femmina».

Tutto questo è stato riportato nel verbale di sequestro che «in quanto atto irripetibi­le compiuto dalla polizia giudiziari­a è stato incluso nel fascicolo del dibattimen­to e correttame­nte valutato dal giudice». Per altro, fa presente la Corte, si può disporre la distruzion­e degli oggetti che possono essere pericolosi per l’igiene pubblica o che con il tempo si possono alterare. Morale: non importa se nel

I pastori Due rumeni «invasero» il terreno pubblico della colonia elioterapi­ca e scattò la denuncia

Il cacciatore In Valle di Scalve uccise un esemplare femmina protetto, ma la difesa: «Distrutta la prova»

fascicolo non sono finite «fisicament­e» le piume. La prova c’è. Quanto al merito, la suprema corte non può entrarci perché è giudice di legittimit­à. La condanna è dunque «congrua e di perfetta tenuta logica». Ma sul finale qualcosa è cambiato. Il cacciatore deve pagare in più 2.000 euro alla cassa delle ammende. Quasi il doppio dell’ammenda del 2013.

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In tribunale Giudici di tutti i gradi si ritrovano a giudicare anche piccoli reati, che richiedono comunque tempo e risorse

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