E venne un regista
Se ne va uno dei più grandi uomini di cultura dell’ultimo secolo. Cattolico di ricerca, mai remissivo Fu il cantore dell’umiltà contadina: nel ‘78 la Palma d’oro a Cannes con «L’albero degli zoccoli»
Nel febbraio del 2013, a un anno dall’uscita del primo numero dell’edizione bergamasca del Corriere della Sera, venne organizzato al Teatro Sociale un dibattito tra Ferruccio de Bortoli, allora direttore del giornale, ed Ermanno Olmi, intitolato «Bergamo, Terra Madre». Mi fu chiesto di preparare una sorta di omaggio visivo a Olmi da proiettare prima dell’incontro. Mi misi al lavoro con passione e insieme timore.
La passione non aveva bisogno di spiegazioni. Il timore stava nel fatto che avrei usato solo immagini tratte da suoi film. Ma ogni storia ha il suo ritmo: e quello disteso e meditativo dei film di Olmi mal si adattava alla velocità che avrebbe avuto il mio cortometraggio. In pratica, si trattava di rimontare i suoi film, alterandone il ritmo per non tradirne il senso.
Io ero all’estero, quel giorno, e dal Corriere mi raccontarono che la serata fu memorabile anche perché Olmi fece inquietare l’allora sindaco Tentorio dicendo che avrebbe accettato la presidenza del Comitato per Bergamo Capitale della Cultura solo se l’amministrazione avesse rinunciato alla vendita di Casa Suardi.
Quanto al mio piccolo film, mi dissero che Olmi voleva parlarmi. Composi il suo numero senza sapere cosa aspettarmi: se uno ti vuole parlare, non sempre è per una ragione piacevole. Invece, Olmi ci teneva a farmi i complimenti, perché – disse – «è sempre interessante vedere come un altro regista usa le tue immagini». Non solo, sosteneva di essersi perfino commosso. Il filmato metteva insieme i suoi documentari industriali, i primi film in bianco e nero e i suoi ultimi film in un modo che, diceva lui, «mi ha aiutato a capire delle cose di me e del mio cinema nel corso degli anni».
La conversazione andò avanti per un po’, toccando temi comuni come il cinema e l’essere bergamaschi. Mi colpì la freschezza dei suoi ragionamenti, che sentivi venire però da qualcosa di antico, così come nei suoi film qualsiasi tema contemporaneo prendeva un tono classico. Mi sembrò di parlare con un coetaneo. Poi qualcuno lo chiamò per cena e ci salutammo. «Venga a trovarmi», mi disse. Rimpiango di non averlo fatto. Ma se l’uomo se n’è andato, ci sono rimasti i suoi film.
Tutti i suoi film, a cominciare dai documentari industriali con cui esordì alla regia nell’Italia del boom economico. Film sulla costruzione di dighe, impianti, linee elettriche in cui ci sono l’epica e i grandi discorsi sulle «meravigliose sorti e progressive» dell’industrializzazione, ma soprattutto c’è l’osservazione dell’uomo, del semplice lavoratore che svolge la sua opera umilmente, secondo una morale in cui è chiara l’ascendenza bergamasca dell’autore. In questi film ci sono volti e gesti straordinari nella loro asciuttezza mai compiaciuta. L’uomo che lavora — per il miglioramento suo, della sua famiglia, della sua comunità — è il centro di questi piccoli capolavori commissionati dalle aziende, ma alla fine dei
La frase Al collega regista: «Chi ha il potere cerca sempre di fregarla. Sia più in gamba di loro»
quali i veri eroi sono i dipendenti.
Sta qui uno degli arcani dell’ispirazione, anche ideologica, di Olmi. Il suo cattolicesimo non è mai stato acquiescenza, ma una dura convinzione personale, il senso di una ricerca mai consolatoria. E infatti la libertà e il gusto della sperimentazione sono stati uno dei tratti caratteristici di tutto il suo cinema.
Un tratto che, sorprendentemente, si è accentuato con l’avanzare dell’età. I suoi film degli ultimi venti anni possono non convincere fino in fondo, ma sono incredibilmente originali, da Il mestiere delle armi a Cantando dietro i paraventi fino all’ultimo Torneranno i prati.
Personalmente, uno dei suoi lavori che ricordo con più passione è Milano ’83, un fantastico documentario che i socialisti craxiani allora imperanti in città gli avevano commissionato per celebrare la «Milano da bere». Olmi rovesciò il tavolo con un film senza parole che metteva in scena una Milano anonima e straniata, accompagnata dalle musiche di Mike Oldfield e dei Matia Bazar (!) Quel giorno, al telefono, gli dissi quanto mi era piaciuto il film, Lui si mise a ridere e rispose: «Guardi, Ferrario, se lo ricordi: i potenti cercano sempre di fregarla… Lei sia più in gamba di loro».
Grazie anche del consiglio, Maestro.