Il Mantegna sepolto 200 anni in un deposito
Carrara, l’eccezionale scoperta di Valagussa
La Resurrezione di Cristo dell’Accademia Carrara era stata acquistata dal conte Guglielmo Lochis tra il 1840 e il 1848, ma non aveva mai goduto di grandi attenzioni. Anzi, alla fine era passata come una copia di lavori perduti del Mantegna, una copia di scuola padovana, comunque. Quasi duecento anni in una sorta di limbo, insomma, molti dei quali passati nei magazzini della Pinacoteca. Fino a quando un dettaglio — durante il lavoro di catalogazione dei «Dipinti italiani del Trecento e Quattrocento» — ha incuriosito il conservatore Giovanni Valagussa. Una croce in fondo alla tavola, che gli ha fatto pensare alla «punta di un iceberg» rimasta lì da un altro pezzo dell’opera che però alla Carrara non c’è. E quell’altro pezzo è la «Discesa di Cristo al Limbo», proprio del Mantegna, battuto all’asta per 28 milioni nel 2003, a New York. C’era un’unica opera, un tempo. Una scoperta che spazza via quasi 200 anni di polvere.
Il riscatto La tavola in magazzino ha svelato il dettaglio decisivo ed è finita sul Wall Street Journal
I fatti Il capolavoro ristudiato per il catalogo «Dipinti Italiani del Trecento e Quattrocento»
❞ La prosecuzione bassa dell’opera non poteva che essere il Cristo all’interno del limbo. Mi assumo la paternità e anche la responsabilità di questa attribuzione che tra l’altro è stata anche confermata da Keith Christiansen del Metropolitan Museum Giovanni Valagussa Conservatore Accademia Carrara
La straordinarietà della scoperta, la più importante sul Mantegna degli ultimi trent’anni e che d’emblée si è guadagnata in anteprima un articolone su The Wall Street Journal, non toglie l’allure emozionale e finanche romantica che, come da letteratura, accompagna frangenti come questo. Quando la storia di un’opera o di un reperto riemerge dal passato in tutta la sua potenza. Evocativa e artistica, dalle antiche piramidi come ai depositi polverosi di una pinacoteca.
Una deflagrazione di sensazioni, quasi una vertigine è quella che deve aver provato il Conservatore dell’Accademia Carrara, Giovanni Valagussa, quando nel silenzio della sera e degli uffici di via San Tomaso, lo scorso 8 marzo, è riuscito a dare un senso finale ad un indizio. Piccolo, impercettibile, nascosto da una patina polverosa. Eppure quella piccola croce dipinta era lì, da 526 anni, sul margine inferiore de la «Resurrezione di Cristo», tempera e oro su tavola (48,5 x37,5 cm), uno dei 1300 dipinti che costituiscono «l’altra» Carrara. Quella che non ha spazio per mostrarsi e che non supera. L’opera era una di quelle — acquistata dal conte Guglielmo Lochis, il podestà di Bergamo, da una certa signora milanese Silva per 24 zecchini, tra il 1840 e il 1848 — finita in uno dei depositi della pinacoteca dove è rimasta per decine di anni, in un poco artistico oblio. E aveva attribuzione incerta: è di Andrea Mantegna come si legge al verso della tavola, in alto al centro in una scrittura coeva al dipinto? Sì, no, forse del figlio, Francesco, o forse di scuola padovana o ancora una «copia di lavori perduti» così come era stata considerata alla fine del valzer delle attribuzioni durate più di un secolo, tanto da non trovare neppure più posto nel riallestimento della Carrara posteriore alla Seconda Guerra Mondiale. Era finita così, insieme alle altre centinaia di dipinti, dimenticata e anche un po’ snobbata.
Il particolare
Di recente, nel team che sta redigendo il catalogo «Dipinti Italiani del Trecento e Quattrocento» (un lavoro scientifico che obbliga ad effettuare un riscontro inventariale di tutto il patrimonio artistico che si deve classificare) quel Cristo che risorge davanti ad una roccia scura e sopra una volta di sassi, non suscita grandi entusiasmi. «Me ne occupo io» assicura Valagussa, che passa ai raggi x la tavola. Nessun macchinario per la ricognizione, se ne servirà dopo per scandagliare particolari inediti (sotto gli abiti Mantegna dipinge l’anatomia delle figure) ma almeno inizialmente non servono. Bastano i suoi occhi, la pazienza e la passione, due doti che non gli fanno difetto, che lo portano ad adocchiare sul margine inferiore di una tavola sana nel legno, una croce, identica a quella con cui termina il bastone vessillifero impugnato da Cristo. Che ci fa quella croce lì in basso, sull’arco di pietra? Valagussa ci ragiona, dopo aver constatato l’alto livello qualitativo della pittura, arrivando alla conclusione che quella piccola croce fosse solo la punta dell’iceberg, prosieguo di un altro dipinto. Insomma, sotto quella crocetta c’era un altro bastone vessillifero e un’altra figura in piedi.
«Nel limbo»
Chi? «Presumibilmente non poteva essere altri che il Cristo, all’interno del limbo» chiarisce il conservatore della Pinacoteca. Non solo la continuità della croce, ma anche la perfetta coincidenza delle rocce dell’arco (che ha inizio nella parte superiore) ha permesso di identificare la metà inferiore. Quella conservata nell’oblio della Carrara, dunque, altro non è che la metà superiore della «Discesa di Cristo al limbo» già appartenuta a Barbara Piasecka Johnson ( moglie del magnate americano della multinazionale farmaceutica) a Princeton e finita poi nel 2003 ad un’asta di Sotheby’s a New York, dove viene battuta per 28 milioni di dollari. La casa d’aste per motivi di privacy non rivela il nome del compratore, ma tanto basta per inquadrare la scoperta: appesa a qualche parete o rinchiusa in una cassaforte da qualche parte del mondo, c’è un «Cristo nel limbo» che è la mezza mela (definizione poco artistica ma che rende bene l’idea) della Resurrezione di Cristo della Carrara. A dare l’imprimatur della scoperta è stato niente di meno che il più grande esperto mondiale del Mantegna, Keith Christiansen del Metropolitan Museum di New York, che l’ha definito «una bellissima sorpresa e un’opera di assoluta levatura qualitativa».
Il valore
E a proposito di levatura, oltre quella artistica, più prosaicamente c’è anche quella finanziaria: assicurato per un importo tra il 20 e i 30 mila euro, ora il capolavoro ritrovato del Mantegna vale mille volte di più. La sua stima, infatti, è lievitata tra i 25 e i 30 milioni di euro. Ma al di là del valore economico (solo virtuale perché non monetizzabile) c’è quello, più inestimabile del riconoscimento che è sì attribuzione dell’opera al suo autore, ma anche un riconoscimento al lavoro dell’Accademia, una tappa di un percorso che, cominciato ancor prima della riapertura, conferisce una sempre maggior consapevolezza alla caratura di una Bergamo che si scopre artisticamente preziosa. E questo in attesa che l’opera, nella sua interezza, possa essere esposta e ammirata. Al momento è ancora nel deposito, circondata dal velo di curiosità e dalla patina del tempo che un sapiente restauro toglierà nei prossimi mesi. Giusto il tempo perché, nel mondo, si scovi l’altra metà. Non dovrebbe essere difficile: bellezza chiama bellezza.