Lo sguardo di Ghirri
Una mostra «vintage» con le didascalie scritte a mano che trasmette l’idea di sfogliare un vecchio album e illumina come un faro la grandezza dell’artista emiliano
Se per pigrizia vi lasciaste indurre a pensare che conoscete già bene Luigi Ghirri l’avete ormai visto abbastanza, perdereste una mostra molto bella: quella da oggi allestita alla Triennale. Non solo offre una chiave di lettura del fotografo emiliano (1943-1992) che ne illumina il motivo della grandezza, ma è anche godibile attraverso un allestimento (opera di Sonia Calzoni con la grafica di Pierluigi Cerri) che riporta il visitatore a quella sensazione vintage e intima di quando si sfogliavano gli album di fotografie. I 350 scatti sono infatti proposti nel piccolo formato delle stampe originali, appoggiate su parallelepipedi che le portano ad altezza d’occhio con didascalie scritte a mano con la matita, oppure proiettate su muro, secondo una scelta dello stesso Ghirri che preferiva offrire questo tipo di visione quando aveva lavorato con le diapositive, non particolarmente amate.
La gran parte delle foto proviene dall’archivio della rivista «Lotus international», con cui Ghirri collaborò dal 1983 all’anno della sua morte prematura, e hanno quindi come denominatore comune il tema della committenza di architettura. «Ho dovuto spesso giustificare il lavoro di Ghirri con gli architetti perché la sua libertà rompeva molti codici della loro rigida prosopopea», rammenta Pierluigi Nicolin, storico direttore di «Lotus». Erano anni in cui qualcuno si arrabbiava persino se pubblicavamo foto a colori. Mi ricordo che come primo incarico mandai Ghirri a fotografare il cimitero di Modena progettato da Aldo Rossi. Ritornò con delle foto scattate dal finestrino della macchina che mi misero in difficoltà. Non sapevo che cosa pensare e allora le mandai ad Aldo che invece ne fu entusiasta».
La novità dello sguardo del fotografo emiliano, che non nasceva come professionista di architetture ma finì per conoscerle a fondo, fu soprattutto la capacità di superare la tradizionale divisione in generi fra foto di paesaggio e di edifici. Un muro che seppe abbattere con naturalezza. «Ghirri ha portato nel mondo dell’architettura un’idea più libera della realtà: nell’immagine non c’è più solo l’edificio, ma una molteplicità di elementi compreso il tempo che modifica lo spazio, sia in senso atmosferico che cronologico», spiega il curatore Michele Nastasi. «Ha superato la riduzione e l’esclusione degli infiniti soggetti del mondo attraverso la loro inclusione in un’immagine attuale, concetto che diventa più evidente proprio in Italia dove i segni della storia e del presente sono sempre intrecciati».
Un metodo conoscitivo, o un’intuizione, che l’autore stesso descriveva così: «Il paesaggio non è là dove finisce la natura ed inizia l’artificiale, ma una zona di passaggio, non delimitabile geograficamente, ma più un luogo del nostro tempo, la nostra cifra epocale». Sta in questo atteggiamento dello sguardo la spiegazione del fascino, che non è solo estetico ma anche emotivo, sprigionato da certi scatti di capanni a Marina di Ravenna, delle case bianche di Ostuni, di una piazza di Trani con la giostre o della piazza San Prospero a Reggio Emilia. L’architettura non è solo un insieme di volumi, ma viene abitata, usata, guardata anche dalle persone che spesso entrano nell’inquadratura. E per averne una conferma basterà soffermarsi sulle immagini di Milano dove il parco Sempione, la Triennale, l’Arco della Pace, il Castello, l’Arena e la fontana di De Chirico de «I bagni misteriosi» immortalati in una luce autunnale e nebbiosa per un servizio realizzato nel 1986, trent’anni dopo ci appaiono ancora come «luoghi del nostro tempo» e fanno vibrare in noi le stesse corde emotive.