Gli orobici che fecero grande il Teatro alla Scala
Una carrellata di cantanti e impresari teatrali bergamaschi che hanno contribuito a fare grande la Scala tra Settecento e Ottocento. È il nuovo libro, edito dal Centro Studi Valle Imagna, di Luigi Pilon.
Secondo il critico musicale CastilBlaze la ragione dell’abbondanza di tenori e cantanti lirici a Bergamo, fin dai primi dell’Ottocento, si rintracciava nella polenta e nell’aria che si respirava nelle valli bergamasche. A riportarlo, ma per sconfessare la buffa teoria, è Luigi Pilon, autore del libro «Bergamo alla Scala. Cantanti e impresari bergamaschi alla Scala nel Settecento e nell’Ottocento», edito dal Centro Studi Valle Imagna. «Castil-Blaze inventò tutto. Lo cito per prenderlo in giro. La causa del proliferare di cantanti e impresari è del tutto ignota, ma sta di fatto che c’era un clima culturale-musicale sensibile, una naturale e inspiegabile inclinazione al canto lirico, un umore che dava a Bergamo un primato di assoluta unicità», sostiene lo scrittore. Pilon ripercorre le vite di diciotto cantanti, tra tenori, bassi, contralti e soprani, e anche quelle di impresari teatrali. Non molti, ma degni di nota. Primo tra tutti Bartolomeo Merelli. Nato in Città Alta nella parrocchia di San Pancrazio il 19 maggio 1974, «era definito dai contemporanei il Napoleone degli impresari e lanciò Giuseppe Verdi alla Scala, dove rappresentò Oberto conte di San Bonifacio nel 1839, Un giorno di regno nel 1840 e nel 1842 il Nabucco, scritto dal compositore controvoglia e su costrizione di Merelli. Dopo la seconda opera, che non riscosse successo, e la morte della moglie, Verdi voleva abbandonare la lirica. Fu Merelli a convincerlo del contrario», dice l’autore. Dal racconto emerge il frenetico lavoro dell’impresario, che soprintendeva gli allestimenti degli spettacoli, coordinando cantanti, orchestra, scenografo, macchinisti e maestranze, pagati con una dote data dai proprietari del teatro o da chi lo amministrava. Tra gli introiti dell’impresario anche i proventi della caffetteria del teatro o i profitti del gioco d’azzardo consumato nei ridotti. Tra gli impresari bergamaschi, oltre a Merelli, che gestì anche il prestigioso teatro di Porta Carinzia a Vienna, dove si rappresentavano solo opere italiane cantate da italiani, Pilon cita la famiglia Corti, alle prese con teatri parigini e la Scala, dove allestì titoli di Puccini, Ponchielli, Verdi. Tra i cantanti l’autore si sofferma sul basso Ignazio Marini, ritenuto il terzo miglior basso profondo della prima metà dell’Ottocento, insieme a Luigi Lablache e a Filippo Galli. Di lui ricorda un episodio politico: «Durante le cinque giornate di Milano, Marini si trovava a Firenze e venuto a sapere della vittoria dei milanesi sugli austriaci si mise a capo di un corteo di lombardi con in mano il vessillo italiano». Nelle pagine di «Bergamo alla Scala» episodi di spettacolo, reperiti dai giornali dell’epoca, si alternano ad altri di vita privata. Tra gli artisti ci sono anche Giovanni Capponi, di casa al Covent Garden di Londra e ricordato per la sua alta moralità, Giovanni Battista Rubini, giudicato dal musicologo Rodolfo Celletti il più grande tenore della prima metà dell’Ottocento, nonché il più pagato nel canto lirico, tanto da aver comprato terre e case, con le cui rendite sostenne gli studi per diversi giovani. Tra le chicche, la biografia di Giacomo David, «la cui voce aveva dolcezza femminile ed eccezionale estensione, le caratteristiche di un evirato — spiega l’autore —, pur non essendolo». Pagina dopo pagina emergono aneddoti e storie che delineano «Bergamo — conclude Pilon — capitale del canto lirico».